05/03/2013
Lucio Battisti con i Dik Dik. Pietruccio Montalbetti è l'ultimo a destra.
Il 5 marzo 2013 Lucio Battisti avrebbe compiuto 70 anni. In quest’intervista ricordiamo il grande cantautore con uno dei suoi amici più affezionati: Pietruccio Montalbetti, chitarrista dei Dik Dik e autore del libro Io e Lucio Battisti (Salani). Il ritratto di un ragazzo pieno di speranze, la storia di un’amicizia che ha sfidato il tempo.
A una prima lettura del libro emerge l’aspetto forse più interessante: è scritto da un amico che ricorda un altro amico. È un’impressione giusta?
«Sì, è vero. Io non volevo raccontare Lucio Battisti, il re della hit parade, ma rendere omaggio al mio amico Lucio. Ci siamo conosciuti giovanissimi, eravamo senza soldi, ma la musica era il nostro amore. E attraverso la musica ho potuto conoscere l’uomo: gli aspetti meno conosciuti della sua personalità, quelli di cui nessuno sa niente, sono contenuti nel mio libro».
Quando hai incontrato per prima volta Lucio Battisti? Un particolare che ti ha particolarmente colpito?
«L’ho incontrato nei primi anni Sessanta. Eravamo in un salone parrocchiale di via dei Cinquecento a Milano, adibito dalla Ricordi in sala di registrazione. Per quel provino io e gli altri componenti del mio gruppo - che allora si chiamava gli Squali e non ancora Dik Dik - eravamo stati "raccomandati" dal nostro parroco che aveva niente meno telefonato al segretario dell’allora Arcivescovo di Milano Cardinal Montini, il futuro Paolo VI. Disse che eravamo bravi parrocchiani e chiese se fosse possibile offrirci questa possibilità. Arriviamo in studio e vedo questo ragazzo al pianoforte con una montagna di capelli ricci e una giacca stretta».
Lucio Battisti era essenzialmente, un timido, vero?
«Molto timido, molto cocciuto, molto innamorato della musica. Scriveva delle canzoni veramente brutte e ogni volta mi chiedeva: “A Pie’ che te pare?”. Io cercavo sempre di eludere la risposta, ma un bel giorno non ce l’ho fatta e gli dissi che non erano per niente belle. Lui ci rimase male, ma non si arrese. Intanto era diventato chitarrista del gruppo I Campioni e si esibiva nei locali di Milano. In quel tempo abitava in una pensione non da una stella, da mezza!»
Nel libro citi anche un Natale trascorso in famiglia con Battisti.
«Era il 1964. Il 24 dicembre passeggiavo in piazza Duomo e mi sento tirare la giacca. Era Lucio che mi fa: “A Pie’ stasera suono in un locale, vienimi a sentì”. Gli dico di sì. Poi parlo a mia mamma di questo ragazzo laziale che viveva da solo a Milano e lei mi dice di portarlo a casa nostra il giorno di Natale. Alla sera vado a sentirlo, e lo invito. Lui un po’ per timidezza si ritrae, poi a forza di insistere accetta. Abbiamo trascorso il giorno di Natale insieme, per mia mamma è diventato un figlio, ha stretto amicizia con mio fratello Cesare che sarebbe poi diventato il fotografo delle copertine di tutti i suoi dischi».
La copertina del libro che Montalbetti ha dedicato all'amico Battisti.
Qual erano i suoi riferimenti musicali?
«Non aveva una conoscenza
musicale come molti noi ragazzi di allora. Io ascoltavo i Beatles, gli
Stones, Dylan. Lui no. Aveva una certa passione per i Cream ed Eric
Clapton».
Nel 1966 il sodalizio con Mogol. Nasce la "premiata ditta"
Mogol-Battisti? Ma se non si fossero incontrati?
«Quell’incontro ha cambiato la vita di Lucio e la musica italiana. Come
ti ho detto, Battisti non aveva scritto capolavori, ma Mogol capì che
c’era del buono. Intuì, insomma, che all’interno di quel ragazzo c’era
un tesoro, ma bisognava trovare la chiave giusta per aprire la
cassaforte. Mogol possedeva quella chiave. Noi Dik Dik e Lucio finimmo
così sotto contratto con la Ricordi. Mogol divenne nostro produttore e
ci fece seguire da Lucio».
In quel periodo Battisti scriveva
essenzialmente canzoni per altri, giusto?
«Sì, ma un giorno mi disse: “A
Piè, questi nun me le cantano come ce l’ho in testa io, quindi mo’ me le
canto da solo”. La dirigenza della Ricordi rimase sbigottita da quella
decisione. Mi convocarono e mi chiesero se potevo spingerlo a cambiare
idea. Ma lui non mollò, complice anche Mogol. Il resto è storia della
musica leggera».
Hai mai assistito alla nascita di una sua canzone? In
che cosa si distingueva il suo modo di comporre?
«Non l’ho mai capito.
Era un’alchimia misteriosa. Mogol e Battisti andavano a fare un giro in
macchina oppure si chiudevano in una stanza e la canzone era fatta e
finita».
Nell’introduzione al tuo libro, Renzo Arbore parla di Lucio
come artefice di una rivoluzione musicale. Qual è la differenza più
importante nella musica italiana tra il prima e il dopo Battisti?
«Battisti era fautore della semplicità. Due o tre accordi, niente più.
L’importante era che ci fosse una melodia. Il resto lo doveva fare
l’interpretazione. Prendi ad esempio una canzone come Emozioni:
musicalmente è semplicissima, ma difficile da cantare. Battisti,
inoltre, da grande amante della musica ha sempre giocato, si è spinto
sempre più in là, sempre con pochi accordi, senza orpelli. Ecco, perché,
le sue canzoni sono senza tempo».
Tra gli anni ’60 e ’70 ogni sua
canzone diventa un hit. Lui ne preferiva qualcuna in particolare?
«No, è
stato un compositore, un artigiano e in ognuna ci ha messo l’anima».
A
un certo punto Battisti scompare dalle scene. Come te lo sei spiegato?
«Lucio era spaventato dal fanatismo della gente. Mi ricordo quando ci
fece da autista a noi Dik Dik a un Cantagiro. Io mi trovavo a mio agio
nel ruolo della rockstar, lui no. E lo stesso vale per la Tv. Per
esempio l’esibizione con Mina: finché si trattava di cantare tutto bene,
ma farlo parlare in televisione era veramente un problema. Il suo
ritiro dalla scene è figlio del suo carattere. Lui viveva benissimo
appartato nella sua villa in Brianza; andavo a trovarlo spesso e non si
parlava mai di musica, ma delle nostre famiglie, dei figli, di cose
normali».
Abbiamo cominciato con un ricordo degli inizi, per finire
un tuo ultimo ricordo di Lucio Battisti?
«Lo vidi a Capodanno. Era mia
abitudine passare a fargli gli auguri ogni anno prima di raggiungere mia
moglie a sciare a Saint Moritz. Niente mi faceva presagire una fine
così vicina, lo ricordo giù di tono. La notizia della sua morte, a
settembre, mi raggiunse alla radio, mentre da Napoli stavo andando a
Roma in macchina. Non era morto Lucio Battisti, era morto un mio grande
amico».
Giorgio Trichilo