28/03/2013
Grégoire Delacourt
Dice un vecchio adagio che le lacrime più amare sono quelle versate per le preghiere esaudite. Sì, a volte succede che la gioia per una svolta inattesa del destino svanisca in fretta di fronte alla possibilità concreta di realizzare un sogno, lasciandoci smarriti e confusi. È quello che accade a Jo, la protagonista del romanzo Le cose che non ho di Grégoire Delacourt (Salani, pp. 144, euro 12,90): «un cuore semplice», una donna intelligente e positiva con un’esistenza quieta, nutrita di sogni, che per un colpo di fortuna all’improvviso è in grado di realizzarli tutti.
Basta una vincita fortunata alla lotteria, e la sua vita può cambiare in un attimo.
Ma forse la felicità non è così matematica. Forse non si tratta solo di sommare un sogno dopo l’altro, ma di ritrovare se stessi in ciò che si fa. Forse a Jo semplicemente non serve avere tutto ciò che ha sempre desiderato; perché il suo matrimonio, il lavoro, i figli ormai grandi e l’amore non sono beni acquisiti, ma cose vive che sfuggono al suo controllo, e con cui si può solo entrare in sintonia senza farsene travolgere, come quando si nuota tra le onde di un mare agitato.
Scritta con una prosa incisiva e una costruzione narrativa perfetta, la storia di Jo è quella di una donna piena di umanità nella normalità del quotidiano, senza eroismi se non quello più grande di tutti: affrontare le proprie delusioni, i dolori che la vita ci infligge, riuscendo a trovare felicità nelle piccole cose.
Sfoglia i primi capitoli del romanzo “Le cose che non ho” in anteprima:
Il romanzo in pillole
«È solo nei libri che può cambiare la vita. Solo lì si può cancellare tutto con un tratto di penna. Fare sparire il peso delle cose. Cancellare le cattiverie meschine e alla fine di una frase, ritrovarsi all’improvviso alla fine del mondo».
«Possedevo ciò che i soldi non possono comprare ma solo distruggere. La felicità. La mia felicità, per lo meno. Con i suoi difetti. Le sue banali certezze. Le sue piccolezze. Ma era la mia. Immensa. Scintillante. Unica».
«I nostri bisogni sono i nostri piccoli sogni quotidiani. Sono le nostre piccole cose da fare, che ci proiettano verso il domani, e il giorno seguente, nel futuro; sono quelle cose di poco conto che compreremo la settimana prossima e che ci permettono di pensare che la prossima settimana saremo ancora vivi».
«Penso che prendersi il proprio tempo sia importante. Penso che tutto vada troppo in fretta. Si parla troppo in fretta. Si pensa troppo in fretta. Si inviano mail, messaggi senza rileggersi, si perde l’eleganza dell’ortografia, l’educazione, il significato delle cose».
«A me le parole piacciono. Amo le frasi lunghe, i sospiri che non finiscono più. Mi piace quando, a volte, le parole nascondono quello che vogliono dire; o lo dicono in un modo diverso».
«Vedete, si mente sempre a se stessi. Perché l’amore non resisterebbe alla verità».
«I miei mi hanno chiamata Jocelyne. Avevo una probabilità su un milione di sposare un Jocelyn, ed è andata proprio così. Jocelyn e Jocelyne. Una probabilità su un milione. Ed è capitata proprio a me».
«Lei non è una che ama tanto le parole. Da sempre parla pochissimo. Non mi ha mai detto mamma ho fame, per esempio. Si alzava e prendeva qualcosa da mangiare. Non mi ha mai detto: chiedimi la poesia, la lezione, le tabelline. Teneva le parole per sé, come fossero cose rare».
«Coniugavamo il silenzio, mia figlia e io: sguardi, gesti e sospiri sostituivano soggetti, verbi e complementi».
«Vorrei avere la fortuna di decidere della mia vita, credo che sia il più grande regalo che ci possa esser fatto. Decidere della propria vita».
«“È lei la meraviglia”, mi disse. Arrossii. Il mio cuore prese a battere all’impazzata. Sorrise. Gli uomini sanno che certe parole vanno diritte al cuore delle ragazze; e noi, povere idiote, restiamo lì ad aspettare solo di cadere in trappola, contente del fatto che un uomo ce ne abbia finalmente tesa una».
«La mia vita non ha la grazia perfetta che la mia mamma mi augurava la sera, quando veniva a sedersi accanto a me, sul letto; quando mi accarezzava dolcemente i capelli, mormorando: hai del talento, Jo, sei intelligente, avrai una vita felice. Anche le mamme mentono. Perché anche loro hanno paura».
«Ho visto le sue nuove rughe sulla fronte, minuscole rughette intorno alla bocca, la pelle che cominciava a rilassarsi sul collo, dove una volta gli piaceva essere baciato. Ho visto gli anni sul suo viso, ho visto il tempo che ci allontana dai nostri sogni e ci avvicina al silenzio. Allora l’ho trovato bello, il mio Jo nel suo sonno di bambino malato, e ho amato la mia bugia».
«Più le bugie sono grosse, meno le si vede arrivare».
Le risposte di Grégoire Delacourt a tre domande sulla pubblicità, l’infanzia e la femminilità.
La tua vita nella pubblicità prima dei libri: le campagne, come vivevi la scrittura e i tuoi ricordi di quel periodo.
«Ho cominciato a lavorare nella pubblicità nel 1982, a Bruxelles.
Ero (e sono ancora) un copywriter. Ho avuto la fortuna di lavorare molto presto per campagne di alto profilo (Renault, Europ Assistance, Sealink, Le Soir) e nel 1984 mi sono trasferito in Francia. Ho vinto molto presto premi prestigiosi (Leoni d'Oro al Festival della pubblicità di Cannes) e a 29 anni sono diventato direttore creativo di grandi agenzie, fino a quando un giorno del 2004 sono stato licenziato di punto in bianco (e dopo aver vinto un Leone d'Oro con una campagna per Nestlé). Allora mi sono messo in proprio insieme a mia moglie: abbiamo chiamato la nostra agenzia “Quelle belle journée”, “Che bella giornata”, alludendo a quel giorno orrendo.
Adoro la scrittura pubblicitaria. Ti obbliga a essere conciso, a scegliere attentamente le parole. È esigente (in pubblicità molte parole sono “out”). Porta dritto al concetto, all'idea. Gli anglosassoni in questo sono davvero esemplari. Grazie alla pubblicità, ho imparato a scrivere testi dove ogni frase è un'idea, in cui si cerca di scrivere bene per ringraziare la gente che sta leggendo, perché, detto francamente: chi legge una pubblicità?
Ho avuto la fortuna di vivere gli “anni d'oro” della pubblicità: i clienti si appassionavano alle idee, avevano fiducia nelle agenzie e c'erano i soldi che ti permettevano di fare delle cose fantastiche.
Ora, con la crisi, è finito tutto. Secondo me si tratta di una crisi di fiducia (in se stessi).
Nonostante ciò, continuo ad andare tutti i giorni in ufficio e a realizzare campagne per i nostri clienti».
La tua infanzia e il legame con tua madre, che ti ha insegnato cosa sono i sentimenti per una donna. I tuoi ricordi d'infanzia.
«Ho un rapporto complesso con l'infanzia. Un vuoto (enorme), che però cerco di riempire. Sono andato in collegio molto presto, a dieci anni, e da allora non ho praticamente più vissuto in casa. Sono cresciuto lontano da mia madre, ho scelto dei fratelli e dei padri occasionali e “scoperto” mia madre solo più tardi. Ho cominciato a conoscerla e apprezzarla da adulto. Ma è durata poco, perché è morta mentre stavo scrivendo L'Ecrivain de la Famille. Non saprà mai che il mio sogno di diventare scrittore è diventato realtà.
A suo modo, e direi senza averne piena coscienza, mia madre era profondamente femminile; nei gesti, nel modo di vedere cose, per la sua bontà e la sua eleganza. Di tutte queste cose mi sono nutrito per “essere” Jocelyne».
Il tuo rapporto con l'universo femminile.
«Preferirei rimanere chiuso in ascensore con quattro donne che con quattro uomini. Amo le donne. Amo stare in loro compagnia. Mi fanno sentire bene (anche se non tutte sono proprio meravigliose...). Credo che in loro ci sia qualcosa che sento il bisogno di afferrare.
Hanno qualcosa che a me, nel profondo, manca: senza dubbio, l'amore per la vita».