12/04/2012
David Maria Turoldo (1916-1992).
Anche se gli occhi hanno qualche problema
a vedere, la mente e il cuore ricordano
benissimo. E così Franco Loi,
una delle maggiori voci poetiche della
scena italiana, ci prende per mano per condurci
agli anni in cui conobbe padre Turoldo,
«un gigante in altezza e, soprattutto, in
spirito», come lo definirà nel corso del colloquio
nella sua abitazione a Milano.
«Lo conobbi tanti anni fa, fra la fine degli
anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. Andai
alla Corsia dei Servi, a Milano, per ascoltarlo.
Arrivato in ritardo, lo vidi uscire dalla
sala: bello, alto, forte, circondato da tante
persone, perlopiù donne... Confesso che rimasi
un po’ deluso», confida Loi. Una conoscenza
più profonda era solo rimandata. «Stavo
conducendo un’inchiesta sulle personalità
che operavano in mezzo alla gente, e lui lo
era sicuramente. In quell’occasione mi piacque
tanto, nella sua duplice dimensione di
uomo che crede in Dio e che possiede un
grande senso di solidarietà popolare».
Dopo questo incontro rivelatore, i due si
persero di vista per qualche tempo, fino a
quando ebbero l’opportunità di ritrovarsi
grazie a un comune amico, il poeta Amedeo
Giacomini, il quale aveva l’abitudine di ritirarsi
a Sotto il Monte, ospite di Turoldo – che
vi aveva fondato la comunità “Casa di Emmaus”
– per scrivere. «Una volta mi unii a loro.
Padre Turoldo mi accompagnò a vedere
l’abbazia di Sant’Egidio, mi mostrò gli affreschi,
illustrò con orgoglio i restauri. Diventammo
un po’ più intimi».
Così, quando festeggiò i cinquant’anni di
sacerdozio, mi invitò nel suo paese natale
in Friuli, insieme ad Andrea Zanzotto e a Giacomini.
«Ci mostrò la casa in cui aveva vissuto
con i genitori. Al centro del salone al piano
terra c’era un camino, senza cappa.
Quando era acceso, dunque, il fumo restava
chiuso nella stanza. «Mangiavamo seduti
per terra», ci raccontò padre David, «perché
il fumo si alzava». Lì mi divenne ancora più chiara tutta la sua passione per la gente semplice
e umile. Aveva vissuto la vita povera
dei suoi conterranei, contadini e pastori.
Condivideva i bisogni e le gioie della gente,
la amava profondamente. Finita la giornata,
insistette affinché mi fermassi con lui e
altri friulani a bere e cantare... Gli piaceva
far festa, e il buon vino, come a tutti i suoi
conterranei».
Franco Loi è una delle maggiori voci poetiche italiane. Ha appena pubblicato la raccolta "I niül" (Interlinea).
Di nuovo, i due non si incontrarono per
un pezzo, fin quando fu lo stesso Loi a cercarlo
per chiedergli di sottoscrivere una lettera
contro il Governo Andreotti. Accadde allora
un episodio misterioso. «Mi accolse con un caloroso
abbraccio, firmò senza esitazioni la lettera
e aggiunse una frase che, al momento,
mi suonò incomprensibile: “Io devo farmi
perdonare da te”. Sbigottito, gli chiesi spiegazioni,
dal momento che non avevo subìto alcun
torto da parte sua. “Io lo so di che cosa devo
scusarmi”, fu la sua enigmatica risposta.
Capii solo più tardi che cosa intendeva dire:
riteneva, forse, di aver fatto troppo poco per
far conoscere la mia poesia, oppure gli dispiaceva
essere rimasto così a lungo lontano da
me. Era una questione squisitamente cristiana
a indurlo a chieder perdono: la sensazione
di non aver fatto abbastanza».
Loi fu amico ed estimatore anche di un altro
religioso dei Servi di Maria, Camillo De
Piaz che, con Turoldo, condivise esperienze e
ideali in quella straordinaria stagione del
convento milanese di San Carlo al Corso. «Di
De Piaz, Turoldo diceva sempre: “Lui è la
mente, io il braccio”. Ho voluto bene a entrambi
», dice il poeta con lo sguardo perso in
un passato di incontri con grandi uomini.
«Turoldo era come dovrebbe essere ogni prete
», è la frase con cui dà l’ultima pennellata
al suo ritratto di un gigante in altezza e, soprattutto,
in spirito.
Paolo Perazzolo