01/07/2011
La scrittrice francese Sylvie Germain.
Intorno alla morte del romanzo si sono esercitati in tanti. Da genere letterario divenuto per lo più merceologico, esso è ogni volta dichiarato estinto e risuscitato. C’è del vero riguardo alla crisi irreversibile del romanzo tradizionale: troppe sono le narrazioni, le forme di fiction, gli intrecci perché il romanzo nella sua forma classica, ottocentesca, possa ancora esprimere un nodo di senso. Ciò non significa necessariamente che la possibilità di raccontare e di scrivere piccoli o grandi capolavori in forma narrativa sia definitivamente venuta meno: si tratta di imboccare strade diverse, di tentare traiettorie alternative, di mescolare le carte, ibridare, non per complicare ingegneristicamente le narrazioni (operazione portata agli estremi anche dal cinema), ma al contrario per recuperare verginità, candore, potenza all’atto del racconto.
Queste riflessioni sono suggerite dalla lettura di uno dei più importanti testi narrativi degli ultimi anni, inspiegabilmente passato quasi sotto silenzio in Italia, forse per la piccola casa editrice (la Santi Quaranta di Treviso) che l’ha pubblicato nel nostro Paese. Si tratta di Magnus (apparso in Francia nel 2005) della filosofa-narratrice d’oltralpe Sylvie Germain. Nata a Châteauroux nel 1954, è stata allieva di Emmanuel Lévinas, con il quale si è laureata alla Sorbona. Non è il suo primo libro, questo, a vedere la luce in Italia, essendo già usciti alcuni titoli tra gli altri da Rizzoli, Donzelli e da Giano. Che il romanzo sia ancora possibile non è dimostrato da un’efficace teoria, ma dall’evidenza oggettiva. Questo Magnus è una pietra segnaletica, un cippo viario: indica direzioni e rappresenta con la sua presenza una possibilità, la realizza. Le sue pagine sono costellate di citazioni, anche poetiche: ora in forma di esergo, di veri e propri excerpta, ora incastonati dentro i capitoli, che sono definiti “frammenti” e numerati progressivamente, fino a quello finale che porta la cifra zero. Sembra essere, Magnus, una sorta di Terra desolata narrativa: i frammenti puntellano rovine, tragedie storiche, incendi, perdite di memoria, buchi neri, voragini e si ergono nella loro nuda ed essenziale forma a testimonianza profetica.
Il romanzesco nelle sue forme più esterne, invadenti, meccaniche è bandito, grazie al cielo, da queste stazioni narrative, che cercano l’affondo, la verticalità, lo sbrano dentro la continuità temporale invece mimata dai cosiddetti affreschi narrativi. Non grandi campiture, qui, ma un mosaico costituito da preziosissime e lavorate tessere, in ognuna delle quali brilla una sapienza antica, messa a fuoco e lasciata splendere nella sua frammentarietà.
Una fotocomposizione sul volto di Sylvie Germain.
Il tentativo di Magnus, il ragazzo senza nome, venuto dal fuoco alleato
piovuto su Amburgo nel 1943, è proprio quello di riconquistare, brano a
brano, la memoria, la verità di contro alla finzione rassicurante e
mitica dei racconti fallaci: togliere il velo, rivelare a poco a poco lo
sprofondo infernale da cui egli viene.
Quando davanti agli occhi del lettore compare il protagonista, egli è un
bambino che la madre ha salvato da una malattia divorante e
riconquistato alla vita e alla leggenda familiare con la parola. Ma
tutto è falso. I due eroici zii morti in battaglia, il prestigioso padre
medico, la madre amorosa sono frutto di una mistificazione: lentamente,
per soprassalti, Magnus scoprirà la propria orfanità, l’essere stato
adottato e "riprogrammato’"da un’ambiziosa borghese sposata a un medico
collaboratore della follia nazista, sterminatore dei deportati nei campi
di concentramento.
Magnus recupera, rischiando di sprofondare e perdersi, un nome, una
traiettoria, un destino, ma fino all’ultimo deve continuare,
tenacemente, a lottare con i fantasmi della Storia, della sua stessa
famiglia, che arrivano ad annichilire la felicità che ha saputo
riconquistarsi. Ogni volta la sua esistenza è sottoposta alla
raschiatura, alla spoliazione ed egli è il palinsesto su cui la
scrittura fiorisce per essere di nuovo cancellata. Perderà tutto ancora
una volta, infatti, reincontrando il padre creduto morto da trent’anni –
il crudele medico-omicida dalla bella voce – e si incamminerà verso un
finale sorprendente, animato dal personaggio archetipico di fra’ Jean,
monaco-apicultore ritiratosi dal mondo, santo-saggio incontrato nelle
solitudini della regione francese del Morvan.
La sequenza naturale degli eventi è di continuo sconvolta: agnizioni,
ritorni, svelamenti rendono passo passo leggibile un tracciato
altrimenti inestricabile, irto di menzogne, di lacune, di vuoti. Questo
il senso del ‘romanzo nuovo’: una scrittura che si forma e si condensa
in forma sapienziale dalla propria stessa conflagrazione, che risorge
dalla propria fine. Così i frammenti narrativi sono costellati da pagine
di note semi-esplicative, da agglomerati di citazioni, da richiami,
rinvii, “risonanze”. Chi entra in questo labirinto, con la pazienza di
seguire il filo non tanto del racconto quanto della nuda parola, si
troverà al centro di un mistero doloroso e glorioso, luminoso e oscuro:
la storia, la stessa vita, rese oggetto di una scrittura densa e
acuminata, così poco convenzionale da presentare i contrassegni della
genialità.
Daniele Piccini