04/08/2012
Il cantautore Francesco Guccini. Le fotografie di questo servizio, copertina inclusa, sono dell'agenzia Ansa.
Francesco
Guccini scruta nel suo e nel nostro passato alla ricerca del tempo
perduto. Proprio come Marcel Proust che in sette mirabili libri ci
raccontò se stesso e la sua storia, il cantautore – termine assai
limitativo per definire le sue opere- compila quella che definisce
«la playlist del nostro passato: oggetti, situazioni, sapori che
tornano a cantare». Tutto raccolto con scrupolo e inevitabile
nostalgia in un libriccino intitolato Dizionario delle cose
perdute che in copertina “sbatte” l’immagine
dell’indimenticabile pacchetto verde delle Nazionali
Esportazione, le sigarette che il nonno ci mandava a comperare
aggiungendo qualche spicciolo in più, giusto quanto bastava per
comprarci la liquerizia che, nonostante le chiare indicazioni sulla
confezioni, in realtà si chiamava “liquirizia”.
Le estati
della nostra infanzia e della preadolescenza, le ritroviamo proprio
com’erano nei trentasei brevi capitoli che sembrano
foto
non ingiallite di “come eravamo”. Francesco ha il dono di
raccontarci da sempre storie che balzano fuori dalle parole per
diventare immagini. Il rapporto col cinema, per esempio lo ricorda
così: «una volta al cinema pioveva. Nei cinema parrocchiali
frequentati da noi ragazzi, venti lire due film (Bernadette e Torna a
casa Lassie?), e vai allegro, pioveva perché la pellicola, di molto
annosa e vetusta, era rigata dall’uso e sembrava che ogni scena si
svolgesse sotto un incessante acquazzone, ma questo non ci
disturbava, anzi forse pensavamo che l’effetto pioggia facesse
parte della complessità del’arte cinematografica».
Francesco Guccini.
Classe 1940 Francesco ricorda il primo incontro con il chewing- gum, quando gli americani arrivarono in Italia e li lanciavano a coloro che sulle strade applaudivano “i liberatori”. «Pacchettini oblunghi che una volta scartati rivelavano delle tavolettine anch’esse oblunghe e odorose. Caramelle americane? Forse. Ma che fare di quelle strane caramelle? Via lesti in bocca. Però mastica mastica , quella caramella perdeva sapore e non si scioglieva, e fu quindi rapidamente inghiottita».
In casa per gli insetti si usava il Flit, antenato del Ddt, e la carbonella era usata da chi precorreva le grigliate oggi di moda nei giardini della gente che piace alla gente che piace. I taxy erano ancora gialli e il postino che prima, almeno nel film, suonava sempre due volte, mentre oggi (ammesso che suoni) se non apri in fretta devi raggiungere una raccomandata in un ufficio postale in capo al mondo. Ricordi, flashes, memorie riaffiorano da un tempo che apparteneva più ai nostri genitori, come quell’aggeggio che si chiamava “prete” e serviva a scaldare il letto. I nostri giochi si chiamavano “la pulce” (consisteva nel fare entrare in un piccolo recipiente delle piccole fiches, pizzicandole con un’altra fiche più grande) e le agrette, così almeno avevamo battezzato quei coperchietti delle bibite che usavamo come “biciclette” lanciate con un tocco tra indice e pollice su una pista disegnata sull’asfalto col gesso, E ogni coperchietto diventava un campione del ciclismo come Bartali, Coppi, Fiorenzo Magni.
Negli anni Quaranta-Cinquanta in casa, prima del frigorifero qualcuno aveva appunto la ghiacciaia domestica. E avercela non era da tutti. «Era- la descrive Guccini- un mobiletto della grandezza circa di un comodino, con due scomparti. In uno mettevi il cibo da conservare, nell’altro mezza stecca di ghiaccio che compravi da uno che passava periodicamente con un carretto carico. Te ne spaccava un pezzo e tu lo avvolgevi in un panno di sacco e correvi a casa sgranocchiandone un pezzetto con l’inevitabile rampogna della mamma. “Ma non ti farà male tutto quel ghiaccio”. Oggi in ogni casa c’è il frigo, magari un televisore al plasma e addirittura una play station. Ci puoi giocare anche da solo e ti diverti lo stesso. Il mondo cambia, ma quelle ore passate a correre il nostro Giro d’Italia con le agrette sul marciapiede restano indimenticabili. Forse eravamo dei sempliciotti, ma com’era più serena la vita!».
Gigi Vesigna