13/10/2010
Mariapia Bonanate commenta "Accabadora", il romanzo di Michela Murgia che ha vinto il Premio Campiello.
“Accabadora”:
una parola
che respinge e che
attrae. Allontana
per il suono faticoso
e il cupo significato,
in sardo, “colei
che pone fine alla
vita”. Affascina per
l’evocazione di un mondo segreto
emisterioso, dove l’umano e l’eterno
convivono.
Il bellissimo racconto di Michela
Murgia, pubblicato da Einaudi e vincitore del Premio Campiello,
si sviluppa in quest’antitesi:
spacca il cuore con una lama tagliente,
lo accarezza con tenerezza
liberatrice e consolatoria. Senza retorica,
senza pietismi e moralismi
(assurdo e inopportuno indicarlo
come un romanzo sulla morte procurata:
«Non può servire da giustificazione
per nessuna opinione sull’argomento
eutanasia», ha precisato
l’autrice). Senza una parola che
non restituisca i fatti e le persone
in quell’essenzialità spoglia che è il
felice risultato di una letteratura a
umile servizio della realtà. Ma con
una ricchezza sapienziale che arriva
da quella Sardegna ancestrale,
dove sono le donne a tenere in mano
il filo della vita e della morte.
È un libro di due donne: l’anziana
sarta, «vedova di un marito che
non l’aveva mai sposata», e la «fill’
e anima», chiesta “in prestito” dall’accabadora
per farla erede della
propria ricchezza e del suo pietoso
compito di “ultima madre”.
Sono gli anni ’50. Bonaria Urrai,
«vecchia da quando era giovane»,
prosciugata nel corpo senza età,
scompare nella notte nera come la
sua gonna e lo scialle che l’avvolge,
per aiutare i morenti a compiere
l’ultimo passo. Aveva 15 anni,
quando vide le donne di famiglia
porre termine all’agonia straziante
e senza speranza di una partoriente
e apprese la legge non scritta
«per cui sono maledette solo la
morte e la nascita consumate in solitudine
». Da allora la pietà le aveva
impedito di sentirsi responsabile
di un delitto, in un groviglio di
sentimenti, intrappolata come un
ragno nella propria tela. Maria, la
figlia d’elezione, cresce nel cerchio
magico di un segreto sconosciuto,
dove accade qualcosa che le sfugge,
ma che le ha restituito l’identità,
negata da una madre naturale
che la considerava un errore.
Ormai ragazza, scopre in circostanze
drammatiche il significato
delle assenze notturne della madre
adottiva. Con la rabbia e la delusione
cocente di un tradimento
subìto da colei nella quale aveva riposto
fiducia e affetti, la rinnega e
cerca una nuova vita nel continente,
a Torino. Ma non siamo noi a decidere
del nostro destino. Aveva
avuto ragione Tzia Bonaria, nel momento
della lacerante separazione,
a ricordarle: «Non dire mai: di quest’acqua
io non ne bevo. Potresti
trovarti nella tinozza senza manco
sapere come ci sei entrata».
Mariapia Bonanate