12/08/2010
Eraldo Affinati legge "Punto Omega" di Don De Lillo.
Pierre Teilhard de Chardin, grande gesuita francese, in un libro fondamentale, Il fenomeno umano, teorizzò il momento in cui la coscienza della nostra specie, dopo una lunga e complessa catena evolutiva, raggiungerebbe il suo massimo splendore, trascendente eppure presente. A tale suggestione, che la sensibilità cristiana sente propria, ma che può richiamare l’interesse di tutti, si collega Richard Elster, protagonista dell’ultimo romanzo di Don De Lillo, Punto Omega (Einaudi), uno scienziato americano il quale, dopo essere stato consulente del Pentagono, si è ritirato a vivere «a Sud del nulla nel deserto di Sonora, o forse era il deserto del Mojave o un altro deserto».
Proprio lì, nella casa della sua prima moglie, questo intellettuale deluso dal mondo riceve la visita di un aspirante cineasta, Jim Finley, che, colpito da una videoinstallazione di Douglas Gordon ispirata a Hitchcock, vuole coinvolgerlo in un monologo filmato nel quale lui dovrebbe svuotare il sacco recitando sé stesso. Ma non è così che funziona. L’arrivo di Jessie, figlia di Elster, manda tutto amonte: come se quella ragazza richiamasse i due uomini alla realtà. La sua improvvisa scomparsa taglia le gambe al padre, costringendolo a tornare a New York, e vanifica il sogno del giovane regista suo amico: rappresentare, attraverso il cinema, la natura convenzionale del tempo.
Non è la prima volta che Don De Lillo accende una luce rossa per avvertirci che la vera libertà non si conquista fuggendo. Lo aveva già fatto in Underworld, a proposito dell’educazione del giovane Nick Shay, imperniata sulla necessità di imparare a decifrare i nomi delle cose. Ora, in questo libro difficile, impervio, quasi irrisolto, ma con una crosta lirica sanguinosa, va oltre dicendo a sé e agli altri: non ci si stacca dalla vita, né si può sperare di conoscerla davvero sino in fondo. E men che mai è possibile credere in una purezza incontaminata, fosse anche quella del Punto Omega. Al contrario, bisogna scegliere. Autaut. Sporcarsi le mani, mettersi in gioco, esporsi, accettare le scorie, le imperfezioni, il dolore, le crisi, i compromessi. Perché noi siamo fatti di questo.