La filosofa Marzano: io e l'anoressia

La studiosa italiana, docente a Parigi, nel suo libro più intimo e coraggioso racconta come ha vinto la malattia: «Senza quel dolore non sarei mai diventata la persona che sono».

30/09/2011
Michela Marzano è nata a Roma nel 1970. Dopo aver studiato alla Scuola normale superiore di Pisa e aver conseguito un dottorato di ricerca in Filosofia, è diventata professore ordinario all'università di Parigi (Université Paris Descartes). È autrice di numerosi saggi di filosofia morale.
Michela Marzano è nata a Roma nel 1970. Dopo aver studiato alla Scuola normale superiore di Pisa e aver conseguito un dottorato di ricerca in Filosofia, è diventata professore ordinario all'università di Parigi (Université Paris Descartes). È autrice di numerosi saggi di filosofia morale.

   Nel nostro passato possono essere sepolti avvenimenti che non riusciamo a elaborare, a cui non sappiamo, né forse vogliamo, dare un nome. Allora il corpo si ribella, sprofonda nel disagio, e la persona cade nell'anoressia. Un'esperienza che è toccata anche a Michela Marzano, la giovane filosofa italiana docente in un'università di Parigi, che, dopo tanti saggi incentrati sull'etica,  ha voluto affidarla al suo libro più intimo, toccante e coraggioso: Volevo essere una farfalla (Mondadori). Un testo che è racconto autobiografico, indicazione di un percorso di presa di coscienza di sé, esplorazione di quel vissuto da cui è scaturito il suo interesse filosofico. E, soprattutto, un sentito e ragionato messaggio di speranza rivolto a chi, quella battaglia, non l'ha ancora vinta.

- Che cosa l'ha spinta a raccontarsi, a svelare aspetti così intimi della sua vita?

«Vari motivi. Il più importante è che si tratta di un sintomo sempre più frequente, in quanto aumenta il numero delle persone colpite. Desideravo affrontarlo per spiegarne i meccanismi: l'anoressia non è qualcosa di cui vergognarsi, né frutto di una scelta. È, invece, un sintomo da prendere sul serio, che rinvia a qualcosa di più profondo, che investe il rapporto tra quello che si è e quello che gli altri vorrebbero che noi fossimo. In questo senso, è centrale la relazione fra genitori e bambini. In secondo luogo, volevo affrontare alcuni pregiudizi, primo fra tutti quello che le anoressiche siano tutte uguali e che abbiano invariabilmente problemi con la madre. E poi c'è una ragione più filosofica: dopo aver lavorato a lungo sul corpo e la fragilità, avevo voglia di aprire il sipario su ciò che sta dietro alla mia ricerca: il mio interesse è legato al mio vissuto. Hannah Arendt diceva che un pensiero che non nasce da un evento è sterile. Per lei, l'evento significativo sono stati la shoah e il totalitarismo; nel mio caso, non potevo sviluppare un pensiero indipendentemente dalle macerie del mio corpo. Ecco perché mi interesso all'etica, con uno sguardo non normativo».

- Come definirebbe l'anoressia: disturbo, malattia? Lei usa spesso la parola sintomo...
«Non è in senso stretto una malattia, ma un sintomo che va ascoltato. Il ruolo del cibo è importante, sì, ma è essenziale ciò che esso nasconde: si usa il corpo perché non si sono reperite le parole per dire ciò che non va. Quando si trovano le parole per dire "io", il problema è già in via di soluzione, perché è originato dallo sforzo di conformarsi alle aspettative altrui, perdendo di vista ciò che si è e si desidera, fino a non accettare i propri limiti. Nasce un senso di onnipotenza, come se si pensasse di poter fare a meno di tutto, degli altri, delle relazioni, e del cibo... L'anoressia è anche un sintomo sociale, la manifestazione dell'idea che vale chi sa controllare il corpo, il linguaggio, i sentimenti... Le persone che soffrono di anoressia sembrano senza fragilità, mentre è inevitabile che ognuno abbia le proprie debolezze».

- Per la sua esperienza, quindi, la capacità di dare un nome al proprio disagio è decisiva per riuscire a superarlo...
«Bisogna mettersi in ascolto di sé stessi. Ripercorrendo gli episodi della propria vita - in ciò sta l'importanza della psicanalisi - si scoprono le parole per dare senso a ciò era insensato. La parola ricostruisce il non-detto che, da bambini, non riuscivamo a comprendere».

Nel cartellone pubblicitario a destra, la controversa campagna contro l'anoressia di Oliviero Toscani.
Nel cartellone pubblicitario a destra, la controversa campagna contro l'anoressia di Oliviero Toscani.

- Ciclicamente il tema dell'anoressia torna alla ribalta. In generale, come valuta l'approccio sociale e culturale alla questione?
«Intanto, l'aspetto culturale è rilevante. Le immagini che utilizziamo indicano un dover-essere, esse stesse sono sintomo della società in cui viviamo. La domanda che dovremmo porci è: perché vengono valorizzate proprio queste immagini? Il magro è modello della persona che controlla i propri istinti e che, attraverso l'autocontrollo, sembra perfetto. Tuttavia l'aspetto culturale non basta, perché ogni storia di anoressia è diversa dalle altre, come non è sufficiente la sola psicanalisi, ad esempio la psicanalisi del vuoto, per la quale le anoressiche sarebbero tutte ragazze "perverse" che vogliono attirare l'attenzione. Certo che domandano attenzione, ma perché stanno male. È necessario un approccio complesso e personalizzato, non esiste una ricetta unica, benché siano rintracciabili alcune costanti: sensibilità estrema al giudizio altrui, bisogno di accontentare gli altri, perfezionismo, il ruolo delle figure adulte, dai genitori ai professori...».

- Lei scrive che non sarebbe mai diventata la persona che è senza questa esperienza...
«Se non avessi attraversato questa immensa sofferenza, sarei meno sensibile a certi temi, non avrei lo stesso interesse per l'ingiustizia. La questione decisiva è che cosa fare del proprio dolore. La sofferenza in quanto tale non ha senso, però fa parte della vita: dobbiamo trasformarla, fare in modo che da essa possa germogliare qualcosa di buono».

- Ha parlato prima di come sia fondamentale trovare le parole per dire il proprio male: quale parola vorrebbe lasciare alle persone che sono ancora alle prese con questa prova?
«Da quando ho pubblicato il libro mi hanno scritto in tanti. Alle presentazioni, dico che non bisogna mai smettere di credere che la situazione possa cambiare. Chi sta male si sente in prigione, ma deve convincersi che troverà la porta. Si può impazzire di dolore, ma lavorando su sé stessi, accettando di mettersi in discussione, si trova il bandolo della matassa. Conosco il vostro dolore, ma vi dico che non è ineluttabile. Trovate le parole per dire l'indicibile. A una presentazione, una ragazza è intervenuta per dire che il mio racconto aveva saputo esprimere ciò che non lei non aveva mai saputo esprimere e che, in questo modo, la madre, anche lei presente, aveva finalmente potuto ascoltare e capire che cosa stava vivendo. È stato il momento più bello di questa esperienza. Ho incontrato tanta sofferenza, mi è capitato di commuovermi e piangere ascoltando le storie degli altri».

Paolo Perazzolo
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