Padre e figlio alla resa dei conti

Eraldo Affinati legge per noi "L'isola di Sukkwann" di David Vann. Un uomo porta il suo ragazzo in un'isola selvaggia, nella speranza di inaugurare un nuovo rapporto, ma...

16/06/2011
Eraldo Affinati commenta "L'isola di Sukkwann" di David Vann: nato ad Adak Island, Alaska, lo scrittore costruisce barche e ha percorso oltre 40 mila miglia nautiche. Questo, che è il suo primo libro, ha ottenuto otto premi.
Eraldo Affinati commenta "L'isola di Sukkwann" di David Vann: nato ad Adak Island, Alaska, lo scrittore costruisce barche e ha percorso oltre 40 mila miglia nautiche. Questo, che è il suo primo libro, ha ottenuto otto premi.

   Un libro come L’isola di Sukkwann (Bompiani), composto da David Vann con la forza della disperazione, senza rinunciare alla lucidità operativa necessaria per rappresentarla, è una bella risposta da fornire a tutti coloro che periodicamente mettono in dubbio la vitalità del romanzo contemporaneo. È la storia tragica di un padre e di un figlio i quali, di fronte alla cecità della natura selvaggia, invece di ritrovarsi, come avrebbero voluto, soccombono. A ben pensare la società civile può essere una prigione, ma se esiste, vuol dire che l’uomo ne ha bisogno. Allora aspettiamo prima di liquidarla.

   L’adulto sembra essere assai meno maturo del giovane. Questo, del resto, accade sempre più spesso. Eppure c’è affetto fra di loro: entrambi non trovano le parole capaci di manifestarlo e quindi renderlo utile. Trionfa il vento dell’Alaska che spazza via tutto. Un orso entra dentro la casa e la distrugge. La tempesta divampa. Le montagne mettono paura. Le acque sembrano voler inghiottire gli intrusi. Le aquile aspettano fiduciose appollaiate sulle rocce sporgenti. La solitudine è un veleno che scende sul collo dei due sopravvissuti. Lo scrittore assomiglia a un verbalista dall’animo infiammato.

    Ad ogni riga sentiamo rivivere la grande tradizione americana, quasi che il suo corpo tornasse a muoversi dopo un lungo torpore: il cuore pulsante di Herman Melville, la mano ferma di Jack London, la testa concentrata di Ernest Hemingway, la tenerezza di Richard Ford, la tensione lirica di Cormac McCarthy. David Vann, che appartiene a una generazione aurea della letteratura statunitense, quella dei quarantenni (Franzen, Heighton, Buckman e chissà quanti altri non tradotti), impartisce al lettore, in modo assolutamente nuovo, la vecchia lezione dei suoi maestri: impossibile sfuggire a sé stessi. Inoltre, nella durezza di questa requisitoria contro l’illusione dell’autosufficienza, ci fa capire che, persino in una società in apparenza evoluta e consapevole, stile la nostra, gli esseri umani, quando entrano in crisi, mostrano le medesime fragilità dei loro antenati, come se il passato fosse sterpaglia.

Eraldo Affinati
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