23/04/2012
Una manifestazione di immigrati contro il rincaro del permesso di soggiorno (questa foto: Ansa; foto di copertina: Black Archives).
C'è una cosa che colpisce in Romanzo per signora (Feltrinelli), l'ultimo romanzo di Piersandro Pallavicini. Si tratta della capacità dell'autore, quasi unica nel panorama letterario contemporaneo, di fondere e amalgamare letteratura d'intrattenimento e letteratura “alta”: Pallavicini sa divertire e intrattenere il lettore attraverso uno stile pungente, ironico e fulminante, ma allo stesso tempo lo costringe a staccare per un attimo l'occhio della pagina, a riflettere affrontando temi universali con uno sguardo penetrante e profondo. FamigliaCristiana.it ha intervistato lo scrittore pavese.
- Lei, oltre ad essere uno scrittore affermato, è uno dei più preparati ricercatori italiani nel campo della chimica supermolecolare. Come riesce a coniugare le due attività?
"Da un punto di vista logistico, lavorando come un matto. Per 10 ore al giorno, per 5 o 6 giorni la settimana, sono uno scienziato, nel mio laboratorio in università, e non esiste altro. La notte, i weekend, le vacanze, sono invece i momenti in cui leggo e scrivo. E poi sfrutto i momenti neutri, volgendoli a mio vantaggio. Le pause pranzo, le cene ai congressi, i viaggi da e per il laboratorio, gli spostamenti lunghi per lavoro: li uso per pensare, per elaborare trame, per dar corpo ai personaggi. Quando guardo nel vuoto non sono distratto: sto lavorando.
Da un punto di vista creativo, faccio quel che è sempre stato fatto fino a qualche secolo fa: cultura senza distinzioni. La scienza e le lettere si muovono nello stesso alveo, l’avanzamento culturale dell’uomo. Il loro scollamento, che ormai è diventata contrapposizione, conflitto, è uno degli errori della modernità. O, se preferisce, scendendo su un terreno più pragmatico, sostengo che i processi creativi che sottendono lo scrivere bene e il fare buona scienza non sono diversi: occorre in entrambi i casi capacità di analisi, di collegamento tra dati apparentemente distanti, facilità d’invenzione e il coraggio di lasciarsi portare dal proprio intuito, di seguire e sviluppare senza paura un’idea, non importa quanto nuova e rivoluzionaria. Non trova? Che altrimenti si farebbero in un campo romanzetti di basso intrattenimento e nell’altro misere spigolature sulle ricerche altrui".
- Nel 2009 ha dato alle stampe African Inferno, un romanzo che affronta il tema complesso dell'immigrazione africana in Italia. Come e perché è nata questa storia?
"Quel romanzo è nato principalmente perché non esistevano romanzi italiani che avessero come tema principale l’immigrazione, e perché nei media (giornali, TV) l’immigrazione è trattata solo nei suoi aspetti marginali, emergenziali, puntando l’indice sul disagio, sugli episodi delinquenziali. Questo a fronte del fatto che milioni di immigrati e figli di immigrati conducono invece una vita del tutto normale, con lavori, case, macchine, amicizie, amori, divertimenti e scolarizzazione identiche a quelle degli italiani. Ecco, ho sentito l’esigenza di scrivere un romanzo italiano che parlasse finalmente di immigrazione, e che lo facesse esplorando quella integrata, lontana dai drammi. Dove pure c’è molto da raccontare, in termini di pregiudizi da una parte e dell’altra. Sono convinto che finchè non si costruirà un nuovo immaginario sull’immigrazione – attraverso libri, film, sceneggiati tv – un immaginario dove l’immigrato è una persona semplicemente nostra pari, benchè giocoforza diversa nelle abitudini e spesso anche nelle idee, le reazioni automatiche del medio italiano davanti a un nigeriano, a un cinese, a un albanese, saranno di diffidenza e paura. O, all’opposto, di paternalistica pietà. Insomma, sentivo che era necessario cominciare a comportarsi da cittadini europei, maturi e consapevoli, e di smetterla con il nostro trattamento falso e provinciale del fenomeno migratorio.
E poi, va detto, c’era il lato personale: ho vissuto per anni, e ancora lo faccio, fianco a fianco con immigrati africani. Sono i miei amici, i miei affetti. L’humus narrativo l’ho trovato lì. Le storie, i meccanismi psicologici, le tipologie caratteriali ricorrenti nell’interazione bianco-nero, le avevo sotto gli occhi, e mi si è imposta la loro potenza narrativa".
- Non molto tempo fa due senegalesi sono stati uccisi a Firenze. Questo è soltanto l'ultimo di centinaia di episodi xenofobi avvenuti in Italia. Crede che il popolo italiano sia razzista?
"Credo che l’atto orribile di Firenze sia più un atto di fanatismo – intendo dire di follia – che non un atto di razzismo. Diciamo che è un atto di follia reso possibile da un clima razzista. Perché credo che il popolo italiano sia razzista, sì.
Ora, come dicevo più su, certamente un contributo forte è dato dall’immagine sempre e solo negativa dell’immigrato che è propalata dalla maggior parte dei media. Ma credo sia necessario andare un po’ più a fondo, cercare di capire questa cosa: che il nostro non è il razzismo che fu del Sudafrica, non è il razzismo che fu degli Stati Uniti. Non pensiamo certo che gli “altri” siano “inferiori geneticamente” (follia grazie al cielo stigmatizzata e superata dal procedere della storia). Al massimo pensiamo che siano pericolosi. O che siano dei poveri cristi. O più spesso entrambe le cose. Attenzione, perché è proprio qui il punto: pensiamo che gli “altri” ci siano statutariamente inferiori per condizione sociale e per reddito annuo. Se il povero italiano, il debole italiano, vede chi, secondo lui, è per statuto ancora più debole, più povero di lui, cioè l’immigrato, diventare invece benestante, comprare begli abiti, macchine, case, e, Dio non voglia, sorpassarlo nel redditto, ecco che si ritrova a odiarlo. Perché non c’è più nessuno dietro di lui. Anche chi era ultimo l’ha superato, ed è rimasto ultimo lui. E questo l’italiano non riesce a sopportarlo, non lo può perdonare. A questo punto si smette di ragionare, l’odio genera il sonno della ragione e arrivano i mostri".
- Per le Edizioni Dall'Arco, casa editrice specializzata nella pubblicazione di letteratura migrante, cura una collana dedicata al rapporto dell'Italia con il continente africano. Vuole parlaci di questa esperienza?
"Si è trattato di un’esperienza di ricognizione, nata dall’osservazione che ho fatto più su: non esistevano (e ancora quasi non esistono) libri di scrittori italiani sull’immigrazione. Strano, no? Ci vantiamo tanto, noi scrittori italiani, di immergere le mani fino ai gomiti nel sociale, nei cambiamenti del nostro paese, e in effetti siamo pieni di romanzi sul lavoro, sul precariato, sui social network, e stanno già uscendo anche quelli sul disastro culturale e politico che ci ha afflitti negli ultimi 20 anni… ma sull’immigrazione, niente. Allora mi ero prefisso di cercare storie scritte da italiani, di andare a scovarle, chiamandole anche da chi non aveva ancora pubblicato, da chi aveva però storie da raccontare. Volevo interazioni italiano-immigrato da sviscerare. Italiano-africano, più che altro, ma questo è dovuto alla natura della casa editrice, che è una sorta di laboratorio Italia-Senegal. Sono usciti alcuni libri pieni di verità, rivelatori, anche un po’ urticanti, interessantissimi soprattutto per l’area dei rapporti sentimentali “in bianco e nero”. Libri, romanzi e antologie di racconti, capaci di sfatare molti miti, di raccontarci “dal vivo” zone inesplorate della nostra realtà, senza paura di essere politicamente scorretti, ove occorresse. E’ stata una bella esperienza, molto faticosa: perché ero anche editor, e in molti casi c’è stato da lavorare parecchio sui testi".
- Lei è una delle firme più brillanti di Tuttolibri, inserto settimanale de La Stampa, dove si occupa soprattutto di piccola e media editoria. Cosa pensa del panorama letterario underground italiano?
"Posso dire che ho osservato questo: che c’è un’enorme vitalità. Che la scrittura italiana ha quasi l’ossessione dello “stare sul pezzo”, cioè sulle cose e sul mondo (e questo probabilmente è un bene, perché è uno dei compiti dello scrittore, ma sarebbe bello discutere anche delle conseguenze negative che porta l’esserne ossessionati). E ho osservato che non esiste una linea, una tendenza, ma che ne esistono numerose, diverse e divergenti, in espansione, proprio come un universo. E dico questo su tutta l’editoria italiana. Perché mai come in questo momento la distinzione tra piccola/media e grande editoria si è fatta sfumata, per quel che riguarda sia tipologia che qualità del pubblicato. Non ho visto una “scena underground” come opposta o addirittura in lotta con quella “mainstream”. Uso la metafora di prima: c’è un universo in espansione, indistinto e pieno di energia, e stelle e stelline lanciate a velocità folle sono intercettate in modo imprevedibile dalla griglia dell’editoria".
- Perché ha scritto Romanzo per Signora?
"Dal 2006 al 2010 mi ero dedicato quasi esclusivamente a una narrativa d’impegno sociale. Dopo questa esperienza a vevo voglia di tornare all’altra mia anima, quella della narrativa d’intreccio con tinte umoristiche, che si trova soprattutto in Atomico Dandy. Così la scrittura di Romanzo per Signora è venuta da una spinta interiore, da storie che mi ribollivano nell’anima, ed è stata un’esperienza liberatoria. Una boccata d’ossigeno. Ho ritrovato finalmente il piacere di scrivere: mi sono talmente divertito a scrivere “Romanzo per Signora, che ogni volta che avevo anche solo mezz’ora libera diventava facile, perché era un piacere, aprire il computer e andare avanti. . Avevo voglia, finalmente, di raccontare una storia che parlasse della generazione dei miei genitori - una generazione di persone oneste, leali, l’ultima con il rispetto e le buone maniere come valore positivo – una storia che avesse degli anziani allegri per protagonisti, che parlasse di morte e malattia, e dimostrasse che si può farlo con serietà ma senza cedere alla malinconia. Anzi munendosi, per resistervi, di un arsenale fatto di umorismo, signorile distacco, e memorie di ciò che di bello si è vissuto".
Daniele Rubatti