Perché non possiamo non dirci stupidi

Siamo portati a pensare che lo siano gli altri, ma un'analisi più attenta rivela che, per un aspetto o per un altro, lo siamo tutti, come insegna un saggio di Gianfranco Marrone.

24/04/2013
Gianfranco Marrone insegna Semiotica all'Università di Palermo.
Gianfranco Marrone insegna Semiotica all'Università di Palermo.

L'ALFABETO DELL'ETICA
8. Stupidità


Un'analisi non scontata sul tema della stupidità, sul filo del saggio di Gianfranco Marrone, è la nuova tappa della serie "L'alfabeto dell'etica", un'indagine sulle parole e i concetti da riscoprire per orientarsi di fronte alle sfide del nostro tempo. La serie è stata inaugurata dalla conversazione con Laura Boella sull'immaginazione come facoltà morale ed è continuata con l'intervista a Richard Sennett sulla collaborazione quale modalità vincente della convivenza. Poi ha offerto il resoconto della lezione del Dalai Lama sull'"egoismo saggio" e l'intervista a Marc Augé, che identificava nella conoscenza la vocazione più alta dell'uomo. Edgar Morin ha indagato il significato di sviluppo; Roberto Mordacci quello di rispetto; Gabriella Turnaturi quello di vergogna.

«Antropologicamente, lo stupido è sempre l'altro,
 ma a ben vedere esistono innumerevoli forme di stupidità,
 sempre parziali, momentanee, soggettive,
 rintracciabili, a esser corretti, in ciascuno di noi.
 Scagli la prima pietra chi ne resta fuori».
(Gianfranco Marrone, Stupidità, Bompiani)

Un discorso non scontato sulla stupidità potrebbe aprirsi con un esperimento. Provi, il lettore, a immaginare qual è la sua idea di questo concetto, di quali contenuti lo riempie, a chi o a che cosa lo riferisce… Con ogni probabilità, nella vostra mente si sono fatte presenti situazioni e persone diverse, ma con una caratteristica comune: riguardano gli altri; mai, o molto raramente, voi stessi. Lo stupido è, per antonomasia, l’altro. A una conclusione esattamente opposta si perviene dopo la lettura di un saggio assai stimolante scritto da Gianfranco Marrone, saggista e scrittore, docente di Semiotica all’Università di Palermo. Si intitola, appunto e semplicemente, Stupidità (Bompiani).

Marrone compie un viaggio ora storico ora più speculativo dentro questa categoria, mostrando come, in realtà, nessuno può non dirsi stupido e come la stupidità sia sempre sintomatica del nostro stare insieme agli altri, della qualità delle relazioni, dei valori vigenti in una determinata comunità.

 

Professor Marrone, la sua indagine prende avvio da una breve storia della cretineria. Vogliamo ripercorrerla nelle tre fasi da lei ricordate?

«Sono necessarie due premesse. La prima è che il fatto stesso che si possa parlare di una storia della stupidità – come era stato fatto in passato con la follia – indica che il fenomeno viene considerato sotto il profilo culturale, non scientifico o scientista, cioè come forma di diminutio intellettuale e cognitiva. La stupidità è un fenomeno culturale che si evolve e trasforma storicamente. La seconda premessa vuol chiarire che sono state considerate tre tappe, ma i processi sono lenti, progressivi, intrecciati. Detto questo, la prima forma di stupidità è quella classica: nel folclore di tutto il mondo è sempre esistita la figura dello sciocco, spesso accompagnata da un’aura di furbizia, a volte di malizia. È la figura dello scemo del villaggio, che si inquadra in una configurazione sociale precisa, contraddistinta da un centro e una periferia, un potere e i suoi margini. Lo scemo è colui che sta ai margini, in periferia: è l’emarginato, il povero, l’escluso, lo sciocco del villaggio… È colui che non ha accesso al potere, al denaro, ai commerci. Storicamente si è incarnato nel personaggio di Giufà, che prende altri nomi e altre forme nel mondo e nelle culture. Interessante è rilevare che egli porta sempre con sé una certa dose di ambiguità, proprio perché, stando ai limiti della società, ne mette a nudo le strutture, e quindi anche le debolezze, diventando così lo specchio dell’arbitrarietà del potere. Non si capisce mai se il suo esser critico verso il potere derivi dalla sua goffaggine o da uno sguardo malizioso. Giufà è colui che ha capito tutto, ma non lo dà a intendere, o è realmente goffo? La risposta resta nel vago. Certo è che, in virtù della sua stupidità, coglie o almeno consente agli altri di cogliere la morale della storia, la relatività di determinati codici sociali. L’aspetto ambivalente di tale figura è stato ripreso dalla letteratura  contemporanea in Sciascia, Bufalino, Bonaviri, il Calvino delle Fiabe italiane…».

 

Arriviamo così alla seconda fase storica…

«Nell’età moderna lo stupido diventa il matto, viene medicalizzato, internato in ospedale, rinchiuso in manicomio, segregato dallo scientismo razionalista del periodo storico. Emerge qui una diversa forma di stupidità, quella dei presunti intellettuali, cioè coloro che rinchiudono lo stupido. È una figura che abbiamo incontrato nell’opera di Flaubert, un autore che ha sempre subito la fascinazione della stupidità. La sua opera è ricca di personaggi stupidi, che coincidono quasi sempre con gli intellettuali. In Madame Bovary, ad esempio, la stupida non è lei, bensì il farmacista, colui che alla fine del romanzo riceve la Legion d’onore, come a dire che gli stupidi vincono sempre. Con la crisi della modernità, si impone invece l’idea che la regola sociale stessa sia stupida: lo stupido non è più qualcuno, bensì l’organizzazione sociale stessa, che pretende di fondarsi su regole funzionali, mentre in realtà sono prive di senso, fini a se stesse. Pensiamo oggi al mondo della finanza, che ci comanda, fino a costringerci alla povertà, pur essendo basato sul nulla. Bastano delle voci per bruciare miliardi in Borsa: i soldi si perdono per delle voci, fatto che si verifica quotidianamente. Viviamo in un’epoca in cui il pettegolezzo può rivelarsi devastante. Situazione che si ripete ogni qual volta ciascuno di noi è costretto a dire: non sono d’accordo con questa regola, ma la devo applicare ugualmente, perché me lo impone qualcun altro, il ministero, il Governo, l’Europa… C’è sempre qualcuno che ci dice che cosa dobbiamo fare, ma nessuno se ne assume la responsabilità, né ce ne spiega la ratio».

Uno degli esiti più interessanti della sua indagine è quella che potremmo chiamare la relatività della stupidità o la stupidità parziale: per qualche aspetto, siamo tutti sciocchi…

«È la questione centrale. Non esistono gli stupidi come non esistono gli intelligenti, cosa che aveva già capito Musil nel suo Discorso sulla stupidità. Stupidi lo siamo tutti, almeno in parte; abbiamo sfere in cui eccelliamo, altre in cui siamo deficitarii. In certi ambiti siamo esperti, in altre ignoranti. La curiosità è che a spiegarcelo siano stati gli informatici. Anni fa era di moda il tema dell’intelligenza artificiale, quella che simula l’intelligenza umana. Lì si è chiarito che il computer è in grado di svolgere alcune cose alla perfezione, ma che non è intelligente. Quelle abilità che, solitamente, vengono ritenute segno di intelligenza, come il calcolo, sono in realtà le più facilmente riproducibili. Luigi Malerba diceva: il computer è un cretino velocissimo. Eccezionale nel far di conto, ma totalmente incapace di raccontare una favola».

 

Il rapporto fra la stoltezza e Internet è una questione di particolare interesse oggi. Nicolas Carr ci ha spiegato che “Internet ci rende stupidi”, mentre lei sostiene che il vero problema non risiede in questo, bensì nel rischio di omologazione, causata dal fatto che utilizziamo tutti gli stessi software o programmi o applicazioni. In altre parole, la rete ci determina, ci plasma tutti uguali…

«Carr ha una concezione che chiamerei apocalittica, mette in rilievo alcuni fenomeni, esasperandoli. Ad esempio, dice che l’abitudine agli Sms, cioè ai testi brevi, produrrà l’incapacità di gestire i testi lunghi… Ora, se è un peccato privarsi della lettura di Guerra e pace, non è detto che chi non l’ha letto sia scemo. Potremmo pensare che i nativi digitali abbiano abilità diverse rispetto a chi ha letto quel romanzo. La riflessione sui software l’ha sviluppata soprattutto Lev Manovich. Dei software oggi si occupano solo gli informatici, manca del tutto un’antropologia del software, ovvero un’indagine sugli effetti socioculturali di queste invenzioni. Chi è l’autore di Word o di Power Point? Perché sono fatti in un certo modo e non in un altro? Da quando esiste Power Point, ad esempio, tutte le relazioni hanno la stessa struttura, la presentazione di ogni slide ha una durata predeterminata, il che condiziona anche i contenuti. Chi ha deciso che una slide duri cinque minuti? Perché cinque minuti? Un amico architetto mi ha raccontato che, guardando un edificio, è in grado di identificare con quale programma è stato progettato…».

I personaggi tondi e pingui di Botero costituiscono una rappresentazione iconografica della stupidità (Corbis).
I personaggi tondi e pingui di Botero costituiscono una rappresentazione iconografica della stupidità (Corbis).

Il sentire comune è persuaso che fra cretineria e intelligenza, stoltezza e razionalità esista un'opposizione assoluta, che i due termini stiano agli antipodi. Lei prova a dimostrare che, al contrario, c’è una zona grigia in cui essi si sfiorano, si inquinano a vicenda, si confondono…

«Abbiamo già visto che quelle abilità che consideriamo prova di intelligenza, come il calcolo, sono in realtà le più facili da riprodurre. Mentre un’abilità in apparenza banale, come il raccontare una storia, è ben più complessa. In generale, ragionare – come si fa oggi nei concorsi pubblici – in termini di quoziente intellettivo è un delitto. Considerare migliore chi arriva in fretta a un risultato, anziché chi ci ragiona su, è un problema con forti ricadute pratiche, dato che i posti di lavoro vengono assegnati secondo questi criteri. Sul piano teorico, il razionalismo è pericoloso. Aveva ragione Bufalino, quando affermava che a generare i mostri non è il sonno, bensì l’insonnia della ragione. Si tratta di recuperare la differenza fra capire e comprendere: la vera intelligenza risiede nel comprendere, le cose ma anche le persone. La questione cruciale non è arrivare velocemente a un risultato, intuire rapidamente una risposta, ma avere una comprensione profonda e completa dell’altro. Compito ancor più importante oggi, che viviamo in una società multiculturale. Lo stupido, ai nostri giorni, è chi si chiude nei propri codici, nella propria lingua, nel proprio sistema, pensando che siano gli unici. Qual è allora l’intelligenza autentica? Quella del traduttore: sa che è possibile dire la stessa cosa in diversi modi, nessuno dei quali è superiore agli altri. Sa anche che sarà impossibile dire una cosa in un’altra lingua perfettamente, nondimeno si sforza di trovare la mediazione, il compromesso, l’approssimazione, appunto: la traduzione migliore. Il traduttore vive di negoziazioni e di insuccessi. Detto altrimenti, ha la capacità di gestire l’Alterità, le relazioni con il diverso, le situazioni che la vita ci pone davanti; la capacità di cercare il compromesso nel senso più alto del termine, questa è vera intelligenza».

 

È difficile e rischioso provare a definire la stupidità, perché, come lei dimostra, ogni volta che si tenta di stabilirne i confini si finisce col caderci all’interno. Tuttavia sono possibili alcune approssimazioni: ad esempio, quella che riconosce una stretta parentela fra la stoltezza e il fanatismo, ovvero l’attitudine a fidarsi e affidarsi a cose inverosimili  e improbabili…

«È un tema ricorrente in Sciascia, in particolare in Morte dell’inquisitore, in cui affronta l’inquisizione collegandola al fanatismo in politica, nella religione, in ambito sociale… Fanatismo è credenza in una realtà e in un mondo unici, l’incapacità di gestire l’alterità».

 

Un’altra approssimazione: stupidità come mancanza di una visione complessiva, di uno sguardo capace di complessità – come direbbe Edgar Morin -, incapacità di alzare lo sguardo dal dettaglio, di ipotizzare un tutto oltre il dettaglio in cui siamo immersi.

«È una situazione  che ciascuno ha sperimentato, ad esempio quando andiamo dal medico. Abbiamo l’esigenza che qualcuno ci consideri come persona, che sappia mettere insieme il dolore che sento alla mano con quello che sento alla testa… Vorremmo qualcuno che ci curi, non che ci sezioni in parti; invece ci dicono: io mi occupo solo del fegato, io mi occupo solo dell’intestino, io mi occupo solo del cuore… Anzi, pure ognuno di questi medici è specializzato solo in una parte di tali organi… Accade come quando si entra in un organismo pubblico e si viene rimpallati da un ufficio all’altro e nessuno si assume mai la responsabilità dell’insieme. Più ancora che il venir meno di una visione complessiva delle cose, sono le ricadute sulla vita pratica a destare preoccupazione. Non va diversamente nel campo del sapere: la tendenza è quello di suddividerlo in sezioni sempre più anguste e ai docenti viene chiesto di occuparsi di quelle e non delle altre. Al contrario, si dovrebbe favorire il dialogo fra i saperi, le competenze, le discipline. Solo creando occasioni di confronto si può far progredire il sapere».

 

In questo senso, l’emarginazione del sapere umanistico, che ha la prerogativa di mettere in relazione le nozioni, non aiuta…

«Stiamo subendo l’influenza del sapere tecnico-scientifico – che naturalmente ha tutta la sua dignità e importanza – e la stessa tendenza all’articolazione iperspecialistica delle discipline ne è una prova. Molti ripetono la domanda: a cosa servono questi studi umanistici? A nulla, rispondo io, il mio sapere non ha una funzionalità immediata. Ai ricercatori invece si chiede quanti soldi abbiano procacciato, condizione necessaria per fare carriera. Ma quello non è il mio mestiere. Nessuno viene a verificare se ho aperto la mente ai miei studenti».

Il saggio di Gianfranco Marrone sulla stupidità.
Il saggio di Gianfranco Marrone sulla stupidità.

Torniamo ancora a Sciascia, in particolare alla sua riflessione sulla comunicazione, che tocca la questione dei mass media. Lo scrittore ammoniva sul fatto che, per rendere vera una tesi, basta ripeterla. La dimensione della stupidità collegata alla comunicazione è un tema di forte attualità…

«La ripetizione costante, continua di un concetto alla fine lo impone, anche solo per stanchezza. È difficile da contrastare. La quantità, la ridondanza sono decisive. Detto questo – indubbiamente uno dei meccanismi più usati e abusati dalla comunicazione odierna – va evitato di dipingere scenari apocalittici. Ogni forma comunicativa va presa ed esaminata nei suoi aspetti positivi e negativi. Nella Rete, ad esempio, si trova tutto e il contrario di tutto, certo, ma è innegabile anche che abbia dato una scossa ai media tradizionali, che abbia istituito nuove forme di controllo e partecipazione, che solleciti l’interattività».

 

Tentiamo un’ulteriore approssimazione al concetto di stoltezza. Affascinante è l’idea di Adorno di interpretarla come un arresto dell’evoluzione, della trasformazione; quindi, una forma di arrocco sull’esistente contro la novità…

«Incontriamo questa idea nelle ultime pagine della Dialettica dell’illuminismo. Non è un caso che, proprio in quel contesto, la riflessione si imbatta sul tema della stupidità: il testo mette in crisi la certezze sulle “magnifiche sorti e progressive” del razionalismo positivista, all’indomani della seconda guerra mondiale. Adorno rileva il legame fra razionalità e dominio,  fra illuminismo e fenomeni di totalitarismo, la pianificazione iper-razionale che porta agli estremi del nazismo… Qui nasce l’intuizione della stupidità come mancanza di evoluzione, come mancato sviluppo della vita spirituale dell’uomo che, in una sorta di processo regressivo, torna ad essere animale».

 

Sorge il sospetto che, quello della stoltezza, sia un orizzonte insuperabile per l’uomo. È stato dimostrato che, almeno sotto qualche aspetto, lo siamo tutti. Nel momento esatto in cui riteniamo di non essere sciocchi, e magari accusiamo gli altri di esserlo, lo diventiamo…

«La stoltezza non è un dato ontologico, si dà nelle relazioni, è un fenomeno totalmente intersoggettivo. Lo spiegava Barthes con chiarezza: lo stupido esiste finché c’è qualcuno che lo indica. La psicanalisi, dal canto suo, afferma che l’unico istante in cui una persona attribuisce a se stessa la stupidità è la fine dell’analisi. Ma è una situazione eccezionale, non ne esistono altre in cui una persona la imputa a se stesso. È ancora Barthes a mostrarci un altro aspetto del problema: in un mondo di stupidi, nessuno lo è. Forse è la condizione contemporanea. Musil spiegava bene che non c’è peggior stupido di chi vanta la propria intelligenza. E anche qui troviamo un forte richiamo all’attualità: oggi tutti si sentono intelligenti, non solo al livello del sapere “alto”, accademico, scientifico, ma anche negli spazi di Facebook, luogo in cui non si fa altro che additare e deridere la stupidità altrui. Un mondo di saccenti, di gente che si reputa migliore degli altri».  

Non c’è dunque rimedio alla stupidità?

«Ancora Barthes: bisogna sentirsi stupidi, per esserlo di meno. Si tratta di capire i propri limiti, di essere coscienti della propria stupidità parziale… Bisogna attestarsi in una sospensione fra l’inevitabile cretineria e la ragionevolezza, la capacità di comprendere – non semplicemente capire – essere capaci di gestire le circostanze. Saper cambiare passo, sapersi adattare. Il traduttore è la figura dell’uomo perfettamente ragionevole, perché compie un’operazione impossibile, costantemente alla ricerca delle migliore mediazione possibile».

Paolo Perazzolo
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