18/04/2012
La copertina del libro di Barbarani.
Un diplomatico-James Bond nella Santiago del Cile della dittatura di Pinochet, tra omicidi, servizi segreti, misteri. L’ambasciata italiana, unico luogo di salvezza per centinaia di dissidenti di sinistra e non solo, a cui i diplomatici italiani salvarono la vita dando loro asilo in Italia. Ma anche amori nelle sere profumate di Santiago e preti-coraggio. Sembra un thriller ad alta tensione, ma è una storia vera, per la prima volta raccontata dal protagonista Emilio Barbarani in Chi ha ucciso Lumi Videla? (Mursia). A metà tra memoir e spy story, Barbarani, che poi avviò una brillante carriera diplomatica come ambasciatore, racconta gli anni passati come giovane consigliere all’ambasciata italiana in Cile.
Partendo dal misterioso omicidio della giovane dissidente di sinistra Lumi Videla, il cui corpo venne ritrovato nel giardino dell’ambasciata. «Mia madre e i salesiani mi hanno insegnato che i deboli vanno difesi e al forte non va data vinta. Avrei fatto lo stesso nei Paesi comunisti: aiutare chi lotta e rischia per le proprie idee» racconta.
Perché, dopo tanti anni, riannodare i fili del ricordo?
«Fino a qualche anno fa la situazione politica non era ideale per un libro come questo. Ora ho finito la mia carriera diplomatica: era il momento giusto per scrivere, finalmente».
Ha avuto paura di morire?
«Quando andai a casa del comunista italo-cileno Enzo Genovese. Notte, durante il coprifuoco. Lui era sorvegliato a vista, incatenato al letto, dagli agenti della Dina (la polizia segreta cilena, ndr). Aspettavano che i compagni di partito andassero a trovarlo per poterli arrestare. Dopo una conversazione surreale con gli agenti, riuscimmo a neutralizzarne il piano».
Una manifestazione in memoria delle vittime della dittatura di Pinochet in Cile (foto Reuters).
Chi, tra i tanti protagonisti di quell’epoca, le è rimasto più impresso?
«Padre Fernando Salas e l’ambasciatore De Vergottini per la generosità
con cui rischiarono la propria incolumità. E il colonnello K dei Servizi
cileni: biondo, occhi di ghiaccio. Dagli incontri con lui uscivo
sentendo un grande, profondo freddo».
Il suo è anche un libro sulla diplomazia, argomento spesso oscuro ai
lettori.
«La diplomazia è il servizio dello Stato per agire sul piano
internazionale, fatta di funzionari che cambiano Paese ogni quattro
anni, portando con sé la propria famiglia. Un mestiere che ha vantaggi
ma anche molti svantaggi, di cui spesso non si parla».
Com’era la Santiago del golpe?
«Santiago è come è ora Cuba, o come i Paesi di oltrecortina, come ogni
Paese in dittatura: repressione, polizia, delazioni, infiltrati. Ma
c’era anche una Santiago diversa, quella dei ricchi e borghesi che non
contestavano il golpe. Era una città splendida: tra le Ande e il mare,
una delle più belle terre del mondo. E piena di una gioia di vivere che
pareva irreale».
Quale dei rifugiati in ambasciata ricordi in particolare?
«Soprattutto El Negro, un criminale comune che doveva il suo stato di
violento all’ambiente disagiato in cui era cresciuto e agli anni nelle
carceri cilene. Era una persona di animo generoso, anche se pericoloso e
preda di impulsi d’ira».
Cosa è stato il Cile per l'Italia, e cosa è oggi?
«Il Cile era il maggior tema di politica internazionale e anche interna
italiana, e mantiene ancora una grande attualità nel cuore di un’intera
generazione che allora manifestava nelle piazze italiane contro la
dittatura cilena. Volevo parlare però anche ai giovani italiani di oggi,
perché sappiano cosa è stato il passato in Cile ma anche oltrecortina.
Per questo ho dedicato il libro a Lumi Videla, la giovane attivista
morta: nessuno deve rischiare la vita per le proprie idee».
Michela Gelati