23/04/2010
Inoue Yasushi (Corbis).
Veder invecchiare i propri genitori è una delle esperienze fondamentali nella vita degli esseri umani: purtroppo, si tratta spesso di un percorso accidentato e doloroso. I nodi vengono al pettine ma, invece di sciogliersi, sembrano aggrovigliarsi sempre di più lasciando nei figli, in molti casi anziani anche loro, un sentimento di scacco che pochi sanno accettare a cuor leggero.
Su questo tema, antico e al tempo stesso attualissimo, Inoue Yasushi, già conosciuto per altri testi, fra i quali ricordiamo Il fucile da caccia e Amore, ci ha dato quello che, secondo me, resta il suo vero capolavoro: Ricordi di mia madre (Adelphi). È un libro autobiografico, scritto in prima persona, diviso in tre capitoli composti lungo l’arco di dieci anni, a partire dal 1964. L’autore, nato nel 1907 nell’isola di Hokkaido, al Nord del Giappone, e morto a Tokyo nel 1991, pur raccontando una vicenda molto personale, conquista sulla pagina un forte grado di oggettività. Per farlo ha dovuto strappare qualcosa dentro di sé: ma questo è il prezzo di chi scrive. Lo stile diventa così un miracolo di equilibrio (menzione d’onore alla traduttrice Lydia Origlia) nel quale le pause e i silenzi contano quanto le parole. Siamo distanti mille miglia da ogni forma di narcisismo. Nello scorcio iniziale del romanzo il padre, morendo ottuagenario, lascia allo scoperto il figlio: «Sapevo che sarebbe venuto il mio turno, ma me ne resi conto solo dopo la morte di mio padre».
In seguito alla sua scomparsa, i fratelli e le sorelle, con l’aiuto dei nipoti, cominciano a prendersi cura della madre; eppure lei, nonostante le attenzioni e le premure ricevute, arretra in un mondo chiuso, privo di comunicazione, da una parte chiedendo affetto, dall’altra rifiutandolo. Neppure il ritorno dagli Stati Uniti del fratello Keiichi, dopo una vita trascorsa lontano dalla patria, la scuote dal suo torpore. Il modo in cui Yasushi, di fronte all’impossibilità di parlare davvero con chi lo ha messo al mondo, proprio nel momento in cui lo vorrebbe, fa scorrere, dentro di sé, la commozione e la rabbia, l’amarezza e il disincanto, l’irritazione e la compassione, è straordinario, al punto tale che, a libro chiuso, il lettore comprende di aver assistito, come in un film di Yasujiro Ozu, attraverso il diario dell’inesorabile declino materno, alla contemplazione della finitudine umana: solo il tempo dà senso all’esistenza. Lo scrittore ha ricacciato in gola le sue lacrime, affidando alla letteratura il compito che nella vita è rimasto irrisolto.
Eraldo Affinati