20/03/2012
Raul Montanari, scrittore e traduttore.
Una cosa è certa: la fede cristiana continua a pungolare gli scrittori italiani. Dopo gli interventi di Tullio Avoledo, Giulio Mozzi e Valter Binaghi in Dieci buoni motivi per essere cattolici (Laurana) e lo splendido Il mondo è rappresentazione di Ferruccio Parazzoli (Mondadori) tocca a Il Cristo Zen di Raul Montanari (Indiana 2011). Montanari, autore di undici romanzi e traduttore – tra gli altri – di Philip Roth e Cormac McCarthy, covava questo particolare progetto da quasi vent’anni: mettere in luce i punti di contatto tra l’insegnamento del Maestro di Nazareth e quello dei maestri del buddhismo zen. Il tutto attraverso lo sguardo di un autore che si definisce ateo: una curiosa triangolazione che ricorda alcune riflessioni del teologo Raimon Panikkar.
Ma che cos’è Il Cristo Zen? Davanti a un titolo così provocatorio sorge il timore dell’ennesimo passato di verdura del pensiero dove tutto è uguale a tutto, e quindi non occorre credere a nulla. Timore presto fugato all’ampia introduzione, dove Montanari mette ben in chiaro le irriducibili differenze tra le due tradizioni religiose. Eppure alcune somiglianze continuano a restare. E forse significa che non occorre rivolgersi all’Estremo Oriente per trovare una sapienza che abbiamo sempre avuto in casa.
Hai scoperto un “Gesù” diverso?
«La scrittura è sempre un’operazione cognitiva per l’autore: sai da dove parti ma non sai dove arrivi».
Nell’introduzione ti definisci “ateo cristiano e cattolico”. Cosa significa?
«Ci sono due tipi di ateo: quello che decide di ignorare il problema e quello che se lo pone. Io appartengo alla seconda categoria, perché nella mia storia personale la perdita della fede è stata traumatica e molto dolorosa. Non ho mai cessato di interessarmi alle religioni sotto due aspetti. Il primo è quello culturale e narrativo, perché la religione è innanzi tutto narrazione e anche qualora perdesse la sua anima – come accadde per i miti greci – permangono le sue ossa, cioè il suo scheletro narrativo. Il secondo aspetto è la fede: io posso anche non credere in Dio, ma – a meno che non mi procuri in maniera artificiosa una forma di ottundimento o accecamento – non posso ignorare che la fede agisce negli uomini come dato storico, sociale, geografico, psicologico, sociologico... Sono molto attratto dalle persone che hanno fede, molti dei miei amici sono cattolici. Negli anni le letture che facevo e la vita che conducevo mi portavano apparentemente lontano. Ma non ho mai smesso di leggere le Scritture ebraico-cristiane, anche se da un punto di vista prevalentemente narrativo».
Una statua del Buddha.
Veniamo al tuo progetto. Le differenze tra Gesù e i maestri zen sono
piuttosto evidenti...
«Naturalmente. La prima affermazione inconciliabile è quella della
propria natura divina, idea che non ha mai sfiorato neppure lontanamente
il Buddha, nonostante scuole a lui successive lo abbiano divinizzato.
La seconda differenza è l’affermazione dell’identità personale dopo la
morte. Noi temiamo la morte in quanto fine di un’identità personale.
Nelle scuola zen si parla non di liberazione dell’io, ma di liberazione
dall’io. L’angoscia che io provo davanti alla mia mortalità è tale che
faccio perfino fatica a immaginarmela. Per paradosso, questo confronto
mi ha fatto sentire ancora più occidentale: io non uscirò mai dall’idea
che la mia vita è una retta, o un segmento di retta».
E le somiglianze, quali sarebbero?
«Innanzi tutto c’è lo spostamento della battaglia nell’interiorità
dell’uomo: un tratto già presente nel giudaismo delle origini, ma Gesù –
proprio come Buddha e i maestri zen – si oppone al formalismo religioso
in maniera ancora più chiara. Ci sono molte espressioni sovrapponibili
di questi due giovani riformatori religiosi, moderati e mai iconoclasti,
che aprono una dicotomia tra l’interiorità come luogo della verità e
l’esteriorità quale luogo dell’inganno: una percezione deflagrante che
ci ha portati fino al Novecento di Freud, Pirandello e De Saussure».
Sottolinei poi un altro aspetto: l’intuizione emotiva.
«Sì. La seconda analogia è la rivendicazione della superiorità
dell’aspetto emotivo su quello logico-intellettuale. Tanto Gesù come
Buddha dicono che il Regno dei cieli è dei bambini e degli ignoranti, e
che il dato della passionalità e dell’abbandono alla fede travalica la
comprensione della legge. In entrambe le predicazioni si mette in
guardia dal rischio della speculazione intellettualistica che finisce
per non produrre il salto di mentalità, cioè il salto della fede. Si può
capire, ma solo fino a un certo punto. Sono due aspetti che trovo molto
attuali».
Tu confronti due dottrine, piuttosto che due storie. Ma mettendo tra
parentesi le vicende dei personaggi non perdiamo qualcosa di essenziale
del loro stesso insegnamento?
«Credo di sì. D’altra parte, il carattere di Gesù raccontato nei Vangeli
– proprio come un vero “personaggio” a tutto tondo – presenta
all’interno dei suoi comportamenti forti elementi di contraddizione.
Pensiamo alla resurrezione di Lazzaro: prima Gesù piange per lui, poi lo
riporta in vita. Quale supereroe piangerebbe per qualcuno che sta per
salvare? Sono comportamenti neppure immaginabili al di fuori della
realtà divino-umana di Gesù».
Paolo Pegoraro