09/10/2012
La campagna della Uefa per una cultura del rispetto.
L'ALFABETO DELL'ETICA
6. Rispetto
Con l'intervista a Roberto Mordacci, docente di Filosofia morale, sulla nozione di rispetto prosegue la serie "L'alfabeto dell'etica",
un'indagine
sulle parole
e i concetti da riscoprire per orientarsi di fronte alle sfide del
nostro tempo. La serie è stata inaugurata dalla conversazione con Laura
Boella sull'immaginazione come facoltà morale ed è continuata con
l'intervista a Richard Sennett sulla collaborazione quale modalità
vincente della convivenza. Poi ha offerto il resoconto della lezione
del Dalai Lama sull'"egoismo saggio" e l'intervista a Marc Augé, che
identificava nella conoscenza la vocazione più alta dell'uomo. Edgar Morin, infine, indagava il significato di sviluppo.
«La nozione di rispetto ammette una molteplicità
di piani che, pur restando distinti, sono riconducibili
a una fondamentale asimmetria: quella di un soggetto agente
che si trova di fronte a un valore che eccede
la semplice disponibilità del suo arbitrio.
Non possiamo fare ciò che ci pare
con ciò che merita rispetto» (Roberto Mordacci, Rispetto)
Di che cosa parliamo, quando parliamo di rispetto? La domanda sorge spontanea di fronte all’insistito utilizzo della parola, adottata in contesti tanto diversi da far sorgere il sospetto dell’abuso. “Respect” ha campeggiato per tutta l’estate, prima durante gli Europei di calcio, poi durante le Olimpiadi. Non meno avaro è l’uso quotidiano della parola: «Ci vuole rispetto», «Merito rispetto», «Non c’è più rispetto per nulla»…
La confusione del linguaggio, lo sappiamo, non è fine a se stessa: è sempre specchio di una confusione concettuale, quindi, ancora più in profondità, di un’insipienza culturale e morale. Riappropriarsi del significato autentico della parola è il primo passo per ridare al rispetto quel che è del rispetto, sostenuti dalla convinzione che, sensa di esso, difficilmente si dà un’etica.
Rispetto di
Roberto Mordacci (Raffello Cortina) si muove proprio entro questo orizzonte: entra nelle viscere della parola, poi ne ricostruisce la parabola concettuale per tentare, infine, una sintesi teorica. Un’impostazione che contraddistingue la collana “Moralia”, diretta dallo stesso Mordacci con Andrea Tagliapietra.
Di che cosa parliamo, dunque, quando parliamo di rispetto?
«È una parola consumata, che nella ripetizione continua ha perso profondità, sulla quale è facile fare ironia: “Lei non sa chi sono io!”», riconosce il professore, che insegna Filosofia morale alla facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute di Milano, fondatore e coordinatore del Centro studi di etica pubblica e del blog
www.moraliaontheweb.com. «Di recente la parola è risuonata molto, soprattutto in ambito sportivo. Era il
claim degli Europei di calcio, ad esempio.
In tale contesto, rispetto significa riconoscere la forza dell’avversario. Un’accezione non buonista della parola, dunque: mi misuro con l’altro perché ha una forza che mi si oppone e che potrebbe arrivare al punto di soverchiarmi. Qui il rispetto non scaturisce dal riconoscere l’altro come uomo, dalla sua dignità, almeno in prima istanza, bensì dal riconoscimento della forza altrui.
Sappiamo, io e l’altro, che il confronto delle nostre forze deve tuttavia avvenire dentro una cornice di regole, non come dispiegamento di una forza bruta. Solo così può aver luogo la competizione. Si tratta di una versione delle relazioni interpersonali che non scade nella retorica dell’apertura incondizionata all’altro. Il contesto sportivo ha il merito di mettere in luce che il rispetto, inteso come osservanza di un sistema di regole, è
conditio sine qua non per il gioco stesso».
Roberto Mordacci, docente di Filosofia morale.
Nel suo saggio lei evidenzia come il rispetto, storicamente, sia stato
collegato a un’autorità o un potere, qualcosa di esteriore al soggetto,
implicando un rapporto asimmetrico fra un superiore e un inferiore.
«Questo è il punto originario dell’idea di rispetto. Il termine greco
aidos, ad esempio, indica pudore, ritegno, vergogna di fronte a
un’autorità riconosciuta, che può identificarsi tanto con un’istituzione
quanto con i genitori. È una forma di rispetto verticale, gerarchico,
che vede nell’autorità una fonte di forza che viene riconosciuta. Il
cristianesimo ha portato a maturazione un movimento - non assente nella
cultura classica antica - in due direzioni: in senso verticale, verso
un’autorità somma, assoluta, che possiede il massimo della forza e che
tuttavia non è ostile, anzi, originariamente buona e fonte dell’essere;
tale verticalizzazione, che coincide con il rispetto dovuto a Dio, si
traduce poi nella possibilità di pensare che al cospetto di una tale
autorità ogni uomo è uguale, secondo una dimensione orizzontale che
mette sullo stesso piano tutti gli uomini, al di là del ruolo, del
censo, della qualifica… In questo rispetto orizzontale che gli uomini
devono gli uni agli altri, vi è la premessa del cammino moderno, il
quale, restando su un piano meramente umano, senza riferimenti a un
orizzonte trascendente, giunge a riconoscere che l’uguaglianza degli
uomini si fonda su un potere incondizionato che li abita, identificato
nella libertà, nella capacità di autodeterminazione. Kant è l’emblema di
questa conquista; un Kant che, a mio avviso, qui va avvicinato a
sant’Agostino. Per onestà intellettuale Kant si ferma un passo prima di
Agostino, ravvisando un simile potere incondizionato non in Dio bensì
nella libertà che aderisce al trascendentale. Emerge dunque la sacralità
della libertà interiore, che non è arbitrio di fare ciò che si vuole,
ma possibilità di allinearsi al sé più profondo. Qui nasce l’idea di
tolleranza, il divieto morale di imporre all’altro la propria verità,
anche quando fossimo certi che è nell’errore».
A noi contemporanei, abituati a legare l’idea di rispetto a quella della
persona, sfugge che essa è l’esito di una lenta conquista della
modernità…
«L’interiorità è il marchio dell’Occidente o, meglio, della cultura
europea: è ciò che possiamo rivendicare come “nostro”. Atene,
Gerusalemme e Roma – possiamo dire anche così – hanno messo le
fondamenta di Parigi, ovvero dell’illuminismo, un movimento che oggi non
va di moda e che non viene compreso nella sua essenza».
Nel passaggio dalla concezione antica di rispetto, esteriore e
asimmetrica, a quella moderna, interiore e simmetrica, resta il
riconoscimento di un qualcosa che non è riducibile alla volontà e al
potere del soggetto; una dimensione indipendente e superiore, rispetto
ad esso.
«Anche nella versione laica del rispetto resta una traccia di
trascendenza, che non assume forme religiose, ma resta nell’orizzonte
naturale. La sensibilità odierna ha indirizzato il rispetto anche verso
la natura e le cose. Allora ci dobbiamo domandare: in virtù di che cosa è
possibile? Non lo spiegheremmo, se fossero realtà da lasciare là dove
sono, intoccate. Ha senso se, invece, nella natura e nelle cose
riconosciamo un potere non controllabile dal soggetto. Ci rendiamo cioè
conto che in esse si nasconde quella stessa forza che abita in noi. Kant
non compie questo passaggio, restando irretito in una visione dualista,
che non ci aiuta a rispondere alle domande del dibattito odierno.
Prendiamo ad esempio l’indagine sulla libertà condotta dalle
neuroscienze: siamo liberi o no? Chi prende le decisioni? Se restiamo
nell’orizzonte concettuale del dualismo fra libertà umana e natura, non
riusciamo a spiegare nulla. Se, al contrario, rintracciamo qualche
elemento comune, si aprono nuovi scenari. In altre parole, nel momento
in cui riconosciamo anche nella natura la presenza di una forza
indipendente dall’uomo, capiamo perché sia degna di rispetto. Nella
natura e negli animali riconosciamo una forza vitale, una potenza che ci
trascende. Solo il delirio dell’idealismo ci ha portato a perdere
l’equilibrio fra soggetto e oggetto: la natura è un semplice non-io che
si oppone a un io. Qui si apre la strada al totalitarismo. Viceversa, il
rispetto ci insegna che ciò che “si oppone” all’io è veramente altro.
Esiste un’alterità non riducibile al soggetto, che dunque non è
onnipotente. Così si comprende il rispetto che dobbiamo alla natura,
alle cose. In un manufatto storico come una colonna è racchiuso e
concentrato il potere del tempo, altro elemento che ci trascende…».
Il saggio di Mordacci sul rispetto.
Il discorso è ancora più immediato se applicato ai prodotti
dell’ingegno, come le opere d’arte: sentiamo che meritano rispetto…
«Vale per ogni tipo di produzione umana. Compresa la tecnologia: sono
tutte espressioni di un potere, di una forza. Non condivido la critica
alla tecnica, demone dell’Occidente che porta al nichilismo, sostenuta
da Emanuele Severino sulla scorta dell’eredità di Martin Heidegger. È un
modo limitato di pensare, per la ragione che il rapporto che la tecnica
instaura con l’essere non è solo di riduzione a cosa, è anche rapporto
che fa scaturire forme vitali e nuove, permettendo alla potenza di
dispiegarsi. Una potenza che non ci appartiene, non è nostra.
L’esplosione di una centrale nucleare non è espressione della natura,
bensì della tecnica, che si rivela indipendente rispetto all’uomo. Tale
indipendenza è un fatto. Non ha senso ricondurre tutto al soggetto,
nemmeno come contemplazione dell’essere che si trattiene dall’uso del
potere».
Estendendosi dall’uomo alla natura e alle cose, il rispetto mostra nella
sua ricerca di articolarsi in una gradualità: ci sono diversi gradi di
rispetto.
«Ho riportatato appositamente alcune pagine di Albert Schweitzer, nelle
quali si esprime il bisogno del rispetto per la vita, ma non ci si
impegna a dire, ad esempio, se e in quali circostanze è lecito uccidere
un animale per cibarsi. Credo che la “distanza” nei confronti della vita
non escluda la necessità di “utlizzarla”. Vi è qui un elemento
nietzscheano: è inutile fingere di essere innocenti, la vita è
sopraffazione dinamica, alternanza di vita e morte. Rispetto agli
animali, la pretesa di una purezza assoluta non è sostenibile, anzi,
cela il delirio di onnipotenza di poter vivere in totale autonomia,
senza dover sacrificare nessun “pezzo” della vita. Nelle religioni e
nella tradizione, c’è sempre il riferimento a un sacrificio degli
animali, che non esclude affatto il rispetto nei loro confronti: la
cucina kasher prevede che la carne vada tagliata e macellata secondo
precise modalità, ad esempio. Il punto è che l’uomo è dotato di una
forza maggiore, ha la capacità di allevare, cacciare, uccidere l’animale
per la propria alimentazione».
Non si rischia, così, di giustificare un atteggiamento predatorio, poco
rispettoso, verso la natura?
«No, perché il potere di cui disponiamo conferisce nel contempo una responsabilità.
Non dobbiamo sacrificare un animale per il gusto di farlo,
gratuitamente, ma nel limite definito dalla nostra necessità. Mi sembra
interessante la posizione di Richard Mervyng Hare, un utilitarista
semi-vegetariano: limito l’uso della carne – è il suo ragionamento –
alle situazioni di necessità, come ad esempio il bisogno di una
determinata quantità di proteine per la salute, esprimendo con questo
“controllo” la contrarietà agli allevamenti intensivi, eccetera. In tal
modo si poneva in polemica con i suoi amici utilitaristi vegetariani
puri e duri, come Peter Singer».
Il rispetto, così come è stato definito, può fungere da fondamento
dell’etica?
«La mia tesi è che l’etica del rispetto sia quella che meglio risponde
alle esigenze di una morale condivisa. Kant ne è stato il padre.
Potremmo chiamarla “personalismo critico”, in quanto il rispetto si
fonda sul riconoscimento del libero volere della persona, riflesso di un
potere più grande. Una simile etica ha il vantaggio di avere una base
antropologica universale. Il compito della cultura di ogni tempo, e
ancor più di quella odierna, è quello di dire in che cosa consiste
praticamente il rispetto. Un accenno, controverso ma pregnante: si ha
più rispetto per un degente in condizioni terminali se lo si accompagna
verso la morte, quando esprime il desiderio di non essere più trattato, o
continuando a trattarlo anche al di là delle sue richieste? Dal mio
punto di vista l’eutanasia non è una forma di rispetto: è una
contraddizione in cui entra il paziente, determinata dalla pretesa di
impadronirsi della vita, nella quale si dovrebbe invece riconoscere una
trascendenza, un’indisponibilità. La mia libertà non esiste se non nel
corpo in cui sono. Se cancello quell’unico luogo in cui la libertà – ciò
che mi rende degno di rispetto, non dimentichiamolo – si incarna,
pretendendo che sia un gesto di libertà, cado in contraddizione».
Il rispetto ha anche una valenza politica, è un punto di riferimento per
la polis?
«La dimensione politica del rispetto è fondamentale. Definisce la
relazione fra poteri individuali, dalla quale nascono poteri
sovra-individuali. È dal rispetto reciproco che scaturisce la compagine
politico-comunitaria, alla quale è rimesso un potere superiore. Questo, a
sua volta, ha senso solo nella misura in cui protegge la convivenza
civile degli individui. All’origine sta insomma un patto, come hanno
spiegato le teorie contrattualistiche (John Rawls, per fare un nome):
le teorie liberali, non libertarie, incarnano bene il rispetto
politico. Spesso la cultura liberale è stata accusata di relativismo,
come se non accettasse una verità con cui confrontarsi. Se poniamo la
verità della persona come fonte del rispetto, questa va tutelata: non
possiamo accettare che il rispetto sia condizionato alla razza, al sesso,
allo spazio o al tempo, altrimenti perderemmo la fonte originaria del
rispetto stesso. La persona, e quindi il rispetto che in essa si radica,
non è trattabile».
Paolo Perazzolo