Vittorio Sereni, il sogno della gioia

Ricordo del grande intellettuale di Luino, di cui ricorre il centenario della nascita. Figura fra le più alte della poesia del Novecento italiano, si confrontò con Luzi e Bertolucci.

14/04/2013
Vittorio Sereni, 1913-1983 (Effigie).
Vittorio Sereni, 1913-1983 (Effigie).

Della straordinaria generazione di poeti nati negli anni Dieci del Novecento (quella di Bertolucci, Caproni, Luzi, per citare solo i nomi più ovvi) fa parte con un profilo tutto suo Vittorio Sereni, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita. Poeta di assilli singolari, di temperamento cangiante, il poeta di Luino, sulla sponda lombarda del Lago Maggiore, ha improntato di sé e della propria ricerca una parte importante della poesia del pieno Novecento italiano. Non è secondario – sebbene esterno all’opera – il fatto che Sereni sia stato, come ebbe a dire in un epigramma Franco Fortini (uno dei suoi interlocutori più tenaci), «Poeta e di poeti funzionario», in quanto direttore editoriale della Mondadori tra il 1958 e il 1976.

Non è secondario perché quel ruolo, poi prolungato in quello di consulente (tenuto fino alla morte nel 1983), mise il poeta a confronto con una realtà e problematica culturale di ampia prospettiva e lo inserì al centro di una fitta rete di relazioni intellettuali, rendendolo d’altra parte singolarmente sensibile al clima di mutamento e di instabilità dell’epoca, soprattutto per quanto riguarda la presenza della poesia (probabilmente la postazione editoriale giovò, ma questo è discorso più spicciolo e prosaico, anche alla costruzione della sua fortuna di autore, comunque commisurata all’effettivo valore).

La sigla sotto cui Sereni è volgarizzato nella storia poetica novecentesca è quella del compromesso tra prosa e poesia, nel senso di includere la «tentazione della prosa» (titolo con il quale sono stati raccolti i suoi scritti creativi non poetici) nel testo in versi, ampliandone la capacità di presa, la gamma di registri e insomma la complessità. In questo senso le raccolte più proverbiali sono le ultime due in cui culmina la sua produzione, quantitativamente parca: Gli strumenti umani (1965) e Stella variabile (1981). È ovvio che il poeta di Luino non mosse da solo in tale direzione, ma all’interno di un clima condiviso: basterà pensare alla ricerca parallela condotta da Mario Luzi o al romanzo in versi La camera da letto, cui lavorò a lungo Bertolucci e che giunse infine a pubblicazione tra 1984 e 1988.

Sreni nel 1980 (Rosebud2).
Sreni nel 1980 (Rosebud2).

Entrambi, Luzi e Bertolucci, furono ben noti e presenti all’autore degli Strumenti, che ebbe rapporti e scambi con l’uno e con l’altro e che tuttavia dovette fare i conti con una predisposizione alla poesia ben diversa. Si direbbe che egli abbia lavorato sempre con la fronte corrugata, con lo sforzo quasi fisicamente patito della concentrazione e tenuta del discorso, laddove quegli altri, Luzi ma anche Bertolucci, sembravano condotti da una quasi indiscutibile facilità, da un’ispirazione incrollabile. Non per caso Sereni mostrò sempre una certa ritrosia verso quel termine enigmatico e sfuggente, appunto l’«ispirazione»; non per caso i suoi tentativi di «poema» (Una visita in fabbrica negli Strumenti umani e Un posto di vacanza in Stella variabile) si svolsero sotto il segno di una lenta e faticosa accumulazione; e non per caso, infine, egli soffrì tanto la rarefazione della scrittura poetica, il fatto di scrivere poco, quasi superando invisibili ostacoli.

La forza di Sereni non è stata la facilità di una scrittura sempre pronta ad erompere, ma al contrario la costruzione paziente di un discorso nutrito di diversi apporti, di voci e registri, di suggestioni e di letture, da comporre con umanistico cimento. Un limite? Può essere, ma la forza e l’individualità di un poeta passano anche per il superamento delle proprie ristrettezze. Per lui è stato proprio così, in un crescendo di complessità formale e letteraria elaborata intorno a una tematica da sempre istintivamente predisposta; dico fin dalla prima raccolta, Frontiera (1941), ancora in odore di ermetismo. Quella «frontiera» non è infatti già – tra tanti significati possibili (ne parlò Raboni) – anche la costa ulteriore dei morti, il luogo nullificante del vuoto, che con tanto assillo Sereni tematizzerà in seguito? E non c’è già in quella esigua raccolta, tremolante di usi linguistici tesi alla vaghezza petrarcheggiante (come osservava Isella), la messa a fuoco di una fondamentale angoscia esistenziale, che contrappone la solarità ai «notturni orrori / dei lumi nelle case silenziose»?

Sì, certo; e certo a partire dal Diario d’Algeria (1947), la raccolta che sancisce il tempo della prigionia fuori dalla storia nuova che si va compiendo («io sono morto / alla guerra e alla pace» dice il poeta-soldato, che venne fatto prigioniero dalle forze alleate alla vigilia della caduta del Fascismo e recluso in diversi campi in Africa del Nord dal luglio 1943 al luglio 1945), il discorso tende ad avvicinare gli estremi dell’evocazione lirica e del racconto, della colloquialità e della ricercatezza, della naturalezza e dell’artificiosità, in cerca di un organismo testuale mobile, dinamico, teso e guizzante, quale si realizza soprattutto nelle due raccolte maggiori.

Sereni ha letto e riletto, meditato e ruminato molta letteratura e molta poesia (nei suoi versi compaiono come personaggi, tra gli altri, Saba e Ungaretti), giungendo nei suoi componimenti più alti a un esito di rara densità. Le sue figure stilistiche più tenaci – la ripetizione, il raddoppiamento, la specularità (analizzate da Pier Vincenzo Mengaldo) – sanciscono il rischio della ricaduta su se stesso del discorso (e dell’esistere) e insieme segnano il tentativo di condensare in una alchemica potenza espressiva tutto il possibile della conoscenza, tutto il pensabile e il dicibile. Pochi hanno espresso con tanta risoluta inconsolabilità il motivo della nullificazione, della vanità; eppure, compresente a quella chiarificazione del nulla, in Sereni ha continuato a tremolare il senso del movimento, dell’esuberanza, della gioia possibile.

La gioia ha rappresentato, in effetti, uno dei suoi temi più costanti, insieme a quello di un vitalismo trattenuto e quasi negato. I testi brucano la coltre di cenere del visibile, se ne nutrono e insieme sognano il sogno (consapevole) di trasformare in luce le «toppe d’inesistenza» costituite dai morti (come si dice ne La spiaggia, dagli Strumenti). Di questa contraddizione, di questa tensione drammatica vive la bellezza non metafisica dei testi più complessi di Sereni, illuminati umanamente da un «esile mito» vitale che continua a riprodursi.

Daniele Piccini
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Postato da Teresi Giovanni il 15/04/2013 20:35

La "poetica degli oggetti" di Vittorio Sereni e' a giudizio di molti uno dei principali tratti distintivi che lo separano dagli ermetici fiorentini, votati a una "poetica della parola". Ad accumunarli sono in parte la rierca di una lingua aristocraticamente selettiva e forse anche tematiche come quelle dell'attesa, che pero' in Sereni non ha duplicazioni metafisiche, ne' tanto meno religiose. Evidentemente legato a tale poetica e' il compottamento "Ancora sulla strada di Zenna" tratto dalla raccolta "Strumenti umani". Tra la staticita' dei luoghi e ll'immobilita' delle persone e delle abitudini del paese con il suo avvenuto cambiamento sta la mobilita' creativa del poeta. Giovanni Teresi

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