30/11/2012
Salvatore Settis, archeologo, da tempo impegnato per una riscossa civile dell'Italia (Agf).
Ci sono libri che sono necessari e urgenti. Salvatore Settis, vulcanico archeologo settantunenne, che ha diretto il Getty Research Institute di Los Angeles e la Normale di Pisa, ne ha scritti almeno tre, in nome del bene comune, a metà tra analisi storico giuridica, programma di governo e manifesto delle istanze della società civile. Dopo Italia Spa e Paesaggio Costituzione e Cemento, ecco così arrivare in libreria Azione Popolare (Einaudi), una chiamata alle armi in cui lo strumento da cui partire è la nostra cara Costituzione.
Nella Carta fondamentale che regola la nostra vita, infatti, ci sono già tutti i principi da cui ripartire oggi. Pur se largamente disapplicata, rimane infatti un testo attualissimo per orientare le nostre scelte.
Settis ricorda il “diritto di resistenza”, che secondo Giuseppe Dossetti doveva entrare nella Costituzione (intervento alla Costituente, 21 novembre 1946). Le parole di quell’articolo mancato vanno rilette e meditate come un alto ed efficace manifesto della dignità del cittadino davanti al degrado delle istituzioni: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino».
Azione popolare è dunque anche diritto e dovere di resistenza collettiva al degrado delle città e delle campagne, al sacco del paesaggio?
«Proprio così, nel diritto romano l'actio popularis era la possibilità che avevano i cittadini di ricorrere in giudizio in difesa del bene comune. Lo scontro tra egoismo privato e interesse pubblico va avanti da moltissimo tempo e il diritto romano è molto chiaro stabilendo che il bene comune deve sempre prevalere. Anche nella Costituzione italiana non vi è alcun dubbio a riguardo e per questo credo che dovremmo usarla come arma in questa battaglia per il bene comune».
Nel libro lei ricorda come furono alcuni deputati cattolici nella Costituente a battersi perché fosse espresso il concetto di bene comune.
«Un giovanissimo Aldo Moro, giurista democristiano, è stato uno dei due deputati, insieme al vecchio latinista comunista Concetto Marchesi a ottenere l’inserimento della difesa del paesaggio nella Costituzione.
Dossetti e La Pira insieme a Moro si distinsero per i ripetuti interventi in Parlamento sull'importanza del bene comune, richiamato per ragioni etiche, politiche e giuridiche insieme. Credo che noi non dobbiamo dimenticare questa tradizione, che è stato uno dei momenti più alti della vita politica del nostro Paese, in un momento in cui si cerca di smantellare lo Stato e ridurre la spesa sociale per far guadagnare una serie di imprese nel nome di uno sviluppo che poi non c'è».
Striscione di protesta a Genova a un anno dall'alluvione che ha flagellato la città (Ansa).
Curiosamente però il termine “bene comune” non entrò in Costituzione,
perché?
«Ne furono preferiti altri, come “sovranità popolare” all'articolo 1
oppure “interesse della collettività” all'articolo 32 quando si parla di
diritto alla salute, o ancora “utilità sociale” riferendosi alle
imprese. Il concetto importante è che con la Costituzione il nuovo
sovrano è il popolo e quindi i beni comuni sono i beni del popolo e non
sono cose astratte, ma tangibili come il paesaggio, i boschi, le coste o
l'acqua. Se mai si fosse svenduto il patrimonio pubblico con la
“Patrimonio Spa” avremmo avuto il risultato anomalo - per la prima volta
nella storia - di un sovrano senza patrimonio».
Non servirebbe oggi garantire costituzionalmente anche “il diritto
all'ambiente”?
«Non credo che ci sia bisogno di rivedere la Costituzione. Negli anni '70
quando sorgevano numerosi conflitti tra Stato e Regioni sui temi della
difesa del paesaggio, la Corte Costituzionale chiarì che la tutela
dell’ambiente è un diritto primario e assoluto, che risulta dalla somma
degli articoli 9 e 32 della Costituzione. Nessuna Costituzione al mondo
protegge in modo così forte paesaggio e salute. Per la Corte l’ambiente
“comprende la conservazione, la razionale gestione e il miglioramento
delle condizioni naturali (aria, acque, suolo e territorio in tutte le
sue componenti), l’esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici
terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso
vivono allo stato naturale ed in definitiva la persona umana in tutte le
sue estrinsecazioni”».
Una delle cause dello scempio del territorio è la mancanza di Amor
loci, per riprendere il titolo di un saggio sulla difesa del paesaggio
di Granata e Pileri, professori del Politecnico di Milano, appena
pubblicato da Cortina?
«Esatto. Quel saggio – muovendo dalla dimensione affettiva – mostra come
stiamo assistendo alla polverizzazione delle competenze in materia di
difesa del territorio, a fronte di scelte che richiederebbero una cabina
di regia nazionale e "depoliticizzata". Non nel senso che non sono
politiche (attinenti cioè alla polis, alla comunità dei cittadini) le
scelte in materia, ma vanno sottratte al continuo ricatto esercitato
sulle amministrazioni locali dalle cricche elettorali dei titolari della
rendita fondiaria e della speculazione immobiliare.
Serve un governo di ambiente/territorio/paesaggio che sia unitario e non
frammentato, orientato al bene comune e non al rapinoso profitto del
singolo».
Una piattaforma petrolifera al largo di Otranto (Agf).
Viviamo in un contesto in cui difficilmente ci si indigna per
l’abusivismo edilizio o l’avanzare del cemento. Lei invece insiste molto
sul tema dell'indignazione, perché?
«Abbiamo dovuto aspettare che diventasse di moda per poterne parlare con
meno reticenza, ma io ne parlo da anni. L'indignazione rispetto agli
orrori che ci circondano è il primo passo perché si possano immaginare
percorsi alternativi. Noi ormai sorridiamo quando qualcuno si indigna,
come se fosse una bizza, oppure lo prendiamo ingiustamente come una
manifestazione di pessimismo. Seneca diceva: “Sa indignarsi solo chi è
capace di speranza”. Serve questa speranza per poter andare avanti».
La speranza sono i circa 30 mila comitati ovvero 3 milioni di cittadini
che in un modo o nell'altro si battono in Italia per la difesa del bene
comune?
«Vedo un fermento, una crescita esponenziale di reazioni a queste
provocazioni sul bene comune rispetto a 10 anni fa quando uscì il mio
primo libro. Mentre i partiti sono incartati in lotte intestine e si
allontanano dalla capacità di progettare il futuro, emerge una nuova
consapevolezza nei cittadini, una spinta importante per il futuro.
Devono però probabilmente ancora tradurla in capacità di influenzare le
scelte dei partiti».
Come immagina il futuro dell'Italia, il petrolio è quello che vogliono
trivellare al largo delle nostre coste oppure è la cultura?
«L'idea di circondare l'Italia con una siepe di piattaforme petrolifere è
veramente bizzarra e rivela più che un progetto reale la disperazione
del ministro Passera, il quale sa benissimo che se mai si realizzasse il
piano si estrarrebbe pochissimo petrolio con danni paesaggistici e
ambientali rilevanti.
Detesto invece la metafora della cultura come petrolio dell'Italia, per
me è piuttosto alimento dello spirito, terreno su cui costruire e
potersi sentire sé stessi. L'attacco portato avanti negli ultimi anni
alla cultura (teatri, musei, musica, etc…) denuncia la mancanza di senso
concreto della storia. E il Governo tecnico ha continuato purtroppo su
questa strada.
Chi vorrebbe svegliarsi una mattina avendo dimenticato i primi 20 anni
di vita?
L’Italia sta cercando di dimenticare il proprio passato e di ucciderlo.
L'economista Amartya Sen sostiene che la produttività di un popolo è
legata alla coscienza di sé e pensa che l'India, il suo Paese, sta
compiendo importanti progressi proprio grazie al recupero della propria
coscienza storica».
Dalla nostra storia e dalla difesa del bene comune bisogna ripartire
dunque?
«Sì, aggiungerei anche la creatività come nostro alleato. È mai possibile
che in Italia si producano così poche invenzioni e si costruiscano
invece così tante case? I nostri giovani sono condannati all'emigrazione
o alla disoccupazione per questo motivo».
Una delle famigerate new town a l'Aquila (Agf).
In alcune realtà del nostro Paese questo discorso è particolarmente
tangibile. Pensa che anche L'Aquila possa rinascere?
«Spero di sì. Se non rinasce è un fallimento dell'Italia intera. È stata
una brutta pagina del nostro Paese quella del terremoto, che alcuni
hanno visto come un'occasione come un'altra per guadagnare sulla pelle
degli altri. La città è stata privata di un tessuto sociale, sono sorte
19 new town dove sono stati deportati gli abitanti e ora persone
abituate a vivere nello stesso isolato si ritrovano anche a 35
chilometri di distanza. Sono dei ghetti, senza una chiesa, una piazza,
un’edicola, uno spazio di aggregazione. Spero che si voglia presto
rimediare a questa deportazione degli abitanti che è un delitto molto
peggiore del terremoto».
Qual è un testo da rileggere sempre attuale oltre alla Costituzione?
«La Costituzione Apostolica “Quae publice utilia et decora” di Gregorio
XIII, del 1574. Nel testo si proclama sin dalle prime righe l’assoluta
priorità del bene e del decoro pubblico sulle cupiditates e sui commoda
(interessi, profitti) dei privati, sottoponendo a rigoroso controllo
l’attività edilizia di tutti i privati, compresi gli ecclesiastici.
Scritta in un bellissimo latino curiale, rifacendosi al diritto romano,
stabilisce l’assoluta priorità del bene comune. Le leggi che vengono
emanate ancora oggi in Cina e India partono da lì. D’altronde, non è un
Papa qualunque Gregorio XIII, ma colui che introduce il calendario che
oggi è usato in tutto il mondo».
Gabriele Salari