16/12/2012
"Cristo morto" di Andrea Mantegna (Marka).
«Vero Dio e vero uomo», proclama di Gesù Cristo il Credo cattolico. Tempo ed eterno, visibilità e mistero, contingente e assoluto s’intrecciano in questa figura che da venti secoli domina la storia della cultura occidentale. Forse è proprio questo contrappunto ciò che più ha affascinato e sedotto l’arte. Artisti e scultori, infatti, hanno ricreato tante volte l’immagine del Figlio di Dio a seconda dei gusti, mode, sensibilità delle epoche in cui hanno vissuto. Dai sarcofagi paleocristiani all’arte bizantina, da Giotto a Michelangelo fino agli impressionisti.
«Nessuna religione come quella cristiana ha ispirato e prodotto tanta arte, letteratura, poesia», afferma Vittorio Sgarbi che Nel nome del figlio. Natività, fughe, passioni nell’arte (Bompiani, pp. 464, € 24,00) esplora magistralmente questa infinita galleria di ritratti del Dio unico. Partendo proprio dal Figlio. «Perché», spiega il critico d’arte, «il cristianesimo è la religione del figlio. Dio Padre è immobile, fa nascere il mondo, ma resta lontano. Il Figlio, invece, è dentro il mondo. La pittura, prima della dimensione divina, dà volto all’umanità del Cristo. Intinge il pennello in questa autentica rivoluzione realizzata in nome del Figlio: il Padre ha creato il mondo, il Figlio lo ha salvato».
Dio e uomo. È questo il fascino esercitato da Gesù Cristo su molti artisti?
«Siamo di fronte a un’innovazione profonda e dirompente del cristianesimo. La religione cristiana, anche per chi mette in dubbio la Risurrezione che è l’elemento chiave con cui si manifesta la divinità del Cristo, ha come protagonista un uomo dalla personalità straordinaria, che sovverte i valori. La pittura da secoli racconta proprio questo».
Qual è, secondo lei, il Cristo più umano della storia dell’arte?
«Quello che ha raggiunto anche maggiore popolarità: il Cristo morto di Andrea Mantegna conservato alla Pinacoteca di Brera a Milano. È morto, talmente morto che diventa un archetipo, un simbolo di tutte le morti. Nello scorcio della testa sembra quasi di intravedere i tratti di Che Guevara nella celebre fotografia del suo corpo in fin di vita. Qui il Cristo diventa icona universale del combattente, sia pure ripreso nella posizione della fine. Fissandolo, abbiamo un’immagine di sofferenza e dolore, ben visibili nel corpo squarciato, ma al contempo anche un senso di fiducia, come di chi ha compiuto la sua missione. Mantegna, pur senza rappresentarla, già fa intravedere la luce della risurrezione. Benché morto, qui il Cristo ha un’assoluta serenità nel volto da far capire che è comunque vincitore. L’artista è geniale nel cogliere questa sintesi tra l’umanità, destinata naturalmente alla morte, e la divinità che invece travalica questo confine. Fa intravedere la gloria futura, sia pure nel momento della morte, dell’apparente massima sconfitta che si materializza sui volti in lacrime di Giovanni e della Vergine».
"Risurrezione" di Matthias Grünewald (Alinari).
E quello più divino?
«Sono i Cristi pantocratori, imponenti nella loro posizione statica e
assoluta, dei catini absidali del Duomo di Monreale e della Cattedrale
di Cefalù. Qui il Figlio sembra quasi che si sostituisca al Padre. Il
Cristo Pantocratore di Monreale, in particolare, appare sovrano di ogni
cosa, dal suo volto traspare la forza di chi deve giudicare il mondo, ma
anche soprattutto la forza di chi deve consolarlo».
Un antesignano del Cristo giudice di Michelangelo?
«In un certo senso sì. Nel Giudizio Universale della Cappella Sistina
l’artista mette in scena un Cristo sommamente giudicante. Nello sguardo
non ha nulla del patimento della croce perché il suo sguardo è da uomo
d’azione che scruta il mondo e lo ordina, dividendo i buoni dai cattivi.
Dà il senso del potere autentico di Dio, creatore e regolatore insieme.
L’impostazione del gesto della mano sollevata verso l’alto è quella di
un grande direttore d’orchestra e rappresenta il culmine dell’intero
capolavoro».
Franz Kafka all'amico Gustav Janouch che lo interrogava su Gesù
rispondeva: «Questo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per
non precipitare». Quale Cristo nell’arte corrisponde meglio a questa
definizione?
«In parte alcuni artisti bizantini che hanno raffigurato il Figlio su un
fondo oro per sottolineare proprio questo abisso di luce, una
magnificenza che impone riverenza, timore, maestà. Poi c’è la
Risurrezione di Matthias Grünewald con il suo Cristo appena uscito dal
sepolcro circonfuso di luce. Una figura angelica e sovrumana insieme,
che domina la natura e si erge con una scia luminosa così imponente da
apparire un super uomo. È un Cristo così abbagliante, così triumphans da
determinare, in chi lo guarda, quasi un turbamento, uno shock. Si pone
in contraddizione concettuale con la Risurrezione di Piero della
Francesca, dove il Cristo che risorge resta uomo e conferma la sua
vittoria schiacciante come un guerriero. Ma in questo caso la figura che
si leva dalla tomba è molto più simile a un eroe di Plutarco che al
Cristo della religione cristiana».
Il critico d'arte Vittorio Sgarbi (Milestone).
Qual è il suo Christus Patiens preferito?
«L’Ecce Homo di Antonello da Messina, perché è un Cristo più uomo che
Dio, è il Cristo che dubita della sua stessa divinità come si può vedere
nella smorfia quasi di disappunto delle labbra. Qui il Nazareno non è
solo tormentato e torturato come quello del film The Passion di Mel
Gibson ma, in virtù della violenza che subisce, si interroga, dubita di
essere Dio, dubita di suo Padre. Antonello è l’unico pittore che riesce a
rappresentare così efficacemente questo dramma del dubbio. Non c’è in
questo Cristo la certezza che il fatto di essere trafitto e coronato di
spine preluda alla gloria della Risurrezione. Antonello incalza e
valorizza la natura umana di Gesù rappresentandolo come un uomo che deve
fare i conti con suo padre».
E quello Triumphans?
«Il Cristo Pantocratore di Cefalù perché allarga le braccia dando il
senso di poter accogliere tutti. Qui il Cristo è tornato ad essere
Padre. Mentre il padre non è mai figlio ma è sempre e solo Dio, qui il
Figlio fa anche il Padre, sembra quasi sostituirlo. Ha questa duplicità
straordinaria».
Antonio Sanfrancesco