07/06/2012
Soldati tedeschi fatti prigionieri vengono perquisiti nel 1944 (Alinari).
Taci, il nemico ti ascolta. Avessero tenuto presente questa massima elementare, quei Soldaten – ovvero soldati della Wehrmacht che durante la seconda guerra mondiale tra le grinfie del nemico ci erano finiti per davvero – ci avrebbero privati di uno dei documenti più rivelatori e sconvolgenti venuti alla luce dal secondo dopoguerra a oggi. Le intercettazioni, compiute e registrate dagli alleati inglesi e americani tra il 1940 e il 1945, delle conversazioni tra uomini, compagni di avventura e di sventura, camerati che nei campi di prigionia, ignari di essere origliati, raccontavano le proprie esperienze ed imprese.
A sconvolgere sono l’euforia, la spacconeria, la mancanza di scrupoli con cui i combattenti raccontano del godimento, l’eccitazione, il “puro divertimento” con cui vissero attacchi scontri ed uccisioni. Lo storico Sönke Neitzel e lo psicologo sociale, Harald Welzer che hanno spulciato le migliaia di pagine custodite agli archivi di Stato di Londra e Washington in cui sono trascritte queste intercettazioni, nel libro Soldaten, combattere uccidere morire (tradotto in italiano da Garzanti, 464 pagine, euro 24,50) traggono le conclusioni delle loro analisi. E concludono che forse, i commenti incredibili origliati e registrati non sono da imputare unicamente alla spietatezza e alla crudeltà dei soldati.
Professor Neitzel, professor Welzer, perché questi documenti vengono alla luce solo adesso? Come li avete scoperti? Questi testi sono a disposizione del pubblico dal 1996, da allora in linea di principio avrebbe potuto consultarli chiunque.
«Io, Sönke Neitzel, facendo ricerche storiche, mi imbattei per la prima volta nei protocolli di queste intercettazioni nel 2001, per caso, lavorando all’archivio nazionale di Londra. In seguito, nel 2006 ritrovai la parte più consistente di questo materiale a Washington. Certo poi, per valutare le oltre 150 mila pagine di cui consistono questi documenti, c’è voluto del tempo. e l’aiuto dell’esperto di un’altra disciplina, lo psicologo Harald Welzer, perché le questioni sollevate da queste testimonianza esulavano da un ambito esclusivamente storiografico».
Si tratta di testimonianze che ben si discostano dalle fonti storiche ufficiali. In che senso abbiamo a che fare con una documentazione unica nel suo genere? E perché analizzare questi testi da un punto di vista non solo storiografico ma anche psicologico-sociale?
«Fino ad oggi i libri sulla seconda guerra mondiale si sono basati su documenti come diari di guerra, verbali delle unità militari, lettere ai familiari dei soldati, taccuini di memorie, trascrizioni di interrogatori, atti di processi svoltisi dopo il 1945… Si tratta, in tutti questi casi, di documenti che rendono problematica la ricostruzione della mentalità di coloro che erano coinvolti nel conflitto, perché in una maniera o nell’altra chi forniva la sua testimonianza era preoccupato di dare la propria versione dei fatti: al proprio superiore, al giudice in tribunale, alla moglie che riceveva le lettere a casa, all’immaginario lettore di un diario segreto. I testi di cui ora siamo in possesso rappresentano una scoperta assolutamente nuova. Documentano le conversazioni di 14 mila soldati tedeschi e circa 600 soldati italiani prigionieri degli inglesi e degli americani. Si tratta di discorsi di tutti i giorni, tra camerati: di confidenze tra uomini che stavano vivendo la stessa esperienza nel contesto – drammatico, eccezionale, ma ordinario per un soldato - della guerra. Chi parlava in quella situazione non sapeva come la storia sarebbe andata a finire…».
Il libro "Soldaten" edito da Garzanti.
Inglesi e americani hanno origliato le conversazioni dei prigionieri.
Come è possibile che costoro, pur essendo in prigionia, parlassero tra
di loro con tanta disinvoltura?
«La maggior parte dei prigionieri era stata catturata dagli alleati
appena il giorno prima di essere intercettato, e per lo più in
circostanze drammatiche. Quegli uomini erano riusciti a sopravvivere ai
combattimenti e alle violenze della guerra e allora, all’improvviso,
venivano strappati da una situazione estrema cui in un modo o nell’altro
si erano adattati per essere catapultati nel nuovo contesto della
prigionia. Erano spiazzati. Dovevano trovare il modo di capacitarsi
della loro nuova condizione. In questa fase di ricerca di un nuovo
orientamento il bisogno di parlare delle proprie esperienze e di dar
loro un ordine era enorme. Oltretutto i prigionieri non sapevano che i
loro discorsi venivano intercettati. Gli inglesi in particolare avevano
adottato delle tecniche di registrazione raffinatissime».
Come va giudicata la totale mancanza di scrupoli dei soldati rispetto
agli scontri, le uccisioni e le scene violenza? La guerra era il loro
pane quotidiano, d’accordo, ma come potevano esprimere tanta
soddisfazione di fronte ai suoi aspetti più sanguinari, ammettere
addirittura di divertircisi?
«La guerra crea nuove possibilità di esperienza e di giudizio, istituisce
nuove regole e nuove leggi. All’improvviso ciò che in tempo di pace era
proibito, come l’uso estremo della violenza, diventa lecito.
Innumerevoli esperimenti di psicologia sociale dimostrano che la
stragrande maggioranza degli uomini agisce adottando la violenza più
sfrenata quando l’urgenza della situazione lo impone. L’aspirazione a un
riconoscimento sociale e l’istinto all’azione di gruppo rendono
possibile tutto questo. I soldati pertanto non sono “cattivi”: si
comportano come farebbe la maggior parte degli uomini al loro posto. E
fanno ciò che sono chiamati a fare, nel loro caso: combattere, uccidere,
morire. Il fattore “divertimento” si ritrova soprattutto tra i soldati
della Luftwaffe, l’aeronautica militare. Si trattava di giovani uomini
che, sui loro velivoli “high tech” potevano uccidere a distanza, come
stessero giocando un video-game. In questo si distinguevano di poco dai
piloti della Nato che, di recente, hanno combattuto in Libia. I soldati
della Wehrmacht al contrario, a differenza degli aviatori, degli scontri
militari avevano vissuto il risvolto più faticoso, sporco, sanguinoso.
Uccidere e combattere per loro non fu davvero un divertimento».
Harald Welzer, uno dei due autori di "Soldaten".
Non può essere che la mancanza di scrupoli dei soldati avesse delle
motivazioni ideologiche? In fondo dei soldati dell’esercito del Reich
nazista stiamo parlando.
«L’ideologia non ha che un ruolo secondario nella percezione e
valutazione della guerra da parte di coloro che la combatterono. La
maggior parte dei soldati erano digiuni di politica e non sapevano
nemmeno perché Hitler li avesse trascinati nella seconda guerra
mondiale».
Il vostro libro, intitolato ai Soldaten, senza aggettivi qualificativi,
senza specificazioni di appartenenza o nazionalità, potrebbe riferirsi
ai combattenti di ogni popolo e di ogni tempo? I soldati che hanno
combattuto in Vietnam, o in Irak, possono aver provato le stesse cose?
«Abbiamo volutamente scelto per questo libro un titolo il più possibile
generico. Abbiamo preferito evitare di limitarci ai “Soldati della
Wehrmacht”. Certamente la base del nostro lavoro è stato il materiale
relativo alla seconda guerra mondiale. Le nostre conclusioni però vanno
oltre i limiti delle circostanze storiche. Il nostro proposito era
anzitutto quello di descrivere una “grammatica della guerra”, il modo in
cui i soldati semplici “la spuntano”, il modo in cui affrontano lo
scontro e lo percepiscono. Le nostre analisi rivelano che tra i soldati
che oggi combattono in Afghanistan e quelli che combatterono durante la
seconda guerra, gli elementi comuni sono molto più numerosi di quanto
fino ad oggi si sarebbe potuto credere».
Alessandra Iadicicco