Mogol, questione di talento

Cheope, il figlio di Giulio Rapetti Mogol, parla della dinastia di parolieri che hanno fatto la storia della musica italiana e del suo secondo lavoro: il pittore.

23/03/2013
Alfredo Rapetti, in arte Cheope.
Alfredo Rapetti, in arte Cheope.

Chi ha detto che il talento non si eredita? Nonno Mariano, papà Giulio e il figlio Alfredo Rapetti Mogol sono tra i migliori parolieri che il nostro panorama musicale abbia mai avuto. Tre generazioni che, in epoche diverse, hanno firmato i testi di canzoni indimenticabili. Mogol è celebre per la storica collaborazione con Lucio Battisti. Mariano Rapetti è, autore delle liriche di Vecchio scarpone e Le colline sono in fiore. Alfredo Rapetti Mogol ha scritto canzoni per Celentano, Mina, Gilberto Gil, Laura Pausini, con cui ha vinto anche due Grammy. E poi Raf, Mango, Ivan Graziani, insomma il meglio della musica italiana. Ma in pochi associano Cheope,  il suo nome d’arte, a quello dei Rapetti.

-È un caso la scelta del nome con cui lavora o è stato fatto appositamente?
«E'una scelta voluta. La stessa, d’altronde, che fece mio padre per non essere associato al nome del nonno che era un bravissimo editore e autore di canzoni, a sua volta. Per un non essere indicato come il figlio di… ho chiesto, anch’io, uno pseudonimo».

-Una famiglia controcorrente in un paese dove, quasi tutti, vorrebbero una raccomandazione.
«Proprio così. Ai fan non interessa tanto sapere chi scrive le canzoni quanto conoscere chi le interpreta. Difficilmente viene la curiosità di chiedere: “Chi ha scritto questa canzone?”. Ma, invece, se piace un pezzo ci si informa subito su chi la canta. Solo Mogol, tra i parolieri, gode di indiscussa popolarità».

-Lei è anche un apprezzato pittore. È stato il nonno materno di cui porta il nome ad avvicinarlo a questa forma di arte?
«Mio nonno materno era presidente dell’Associazione Arti Grafiche. Grazie a lui ho conosciuto tantissimi artisti e così, poco alla volta e grazie ai suoi incoraggiamenti, mi sono avvicinato alla pittura».

- Quale delle due passioni è nata prima?
«Quella per la pittura, intorno ai 12 anni. Successivamente ho disegnato fumetti. Dall’83 scrivo anche canzoni. Proprio quest’anno festeggio 30 anni di testi. Posso dire che la radice della mia scrittura è la pittura. Dipingo parole e scrivo parole per testi».

-La sua pittura, allora, è una forma di canto?
«La scrittura è terapeutica, la pittura è liberatoria. Per quanto riguarda le canzoni, il testo si scrive sulla musica già composta e c’è un grande lavoro di squadra. Mentre nella pittura parti da zero, dal silenzio, dal vuoto , da una tela bianca».

Un quadro realizzato da Cheope.
Un quadro realizzato da Cheope.

-Cosa significa oggi essere pittori in Italia e all’estero?
«L’Italia ha una storia di meravigliosi capolavori alle spalle e, forse, è meno attenta alle opere contemporanee. Mentre negli Stati Uniti, paese molto più giovane del nostro e con meno storia alle spalle, si approccia più facilmente al contemporaneo. E poi, non dimentichiamo mai, che l’arte è un antidoto alla violenza, alla volgarità, all’arroganza in qualsiasi parte del mondo.

-Dove ha tenuto la sua prima mostra?
«In una galleria storica romana, la  Cà d’Oro. Poi sono passato dalla Biennale di Venezia, al Salon d’Automne Paris. Dal Mosca Mar’s Contemporary Art Museum  al Riga Foreign Art Museum».

-Come definirebbe il suo stile?
«E’ una tecnica particolare, detta impuntura. L’azione del dipingere si fonde con l’atto dello scrivere, e le parole iniziano ad essere segnate non solamente su fogli ma anche nelle tele. La parola perde il significato letterale perché non voglio far trasparire nessun tipo di messaggio esplicito. Creo un’emozione, uno stato d’animo attraverso il segno che è la cosa che più ci caratterizza come esseri umani ma che stiamo perdendo perché nessuno più scrive a mano».

-In casa Mogol c’è qualche suo quadro?
«Un paio. Una tela che mio padre comprò all’inizio della mia carriera per aiutarmi e in sala troneggia un lavoro che gli ho regalato e che raffigura un cavallo, il suo animale preferito.

-Il ritratto di chi vorrebbe dipingere e per chi scrivere ancora una canzone?
«Potrei dipingere una lettera più che un ritratto. Vorrei dedicare una tela alla vita umana e mandare un messaggio benaugurante, visto i tempi che stiamo vivendo. Canzoni ne ho già scritte tante e per grandi artisti. Mi piacerebbe solo poter continuare a fare quello che sto facendo.

-Cosa ne pensa dei talent ? Ci sono giovani parolieri talentuosi?
«Giovani parolieri, certo. Ne vedo tanti anche nella scuola che ha aperto mio padre in Umbria, il Cet(Centro Europeo di Toscolano) dove, tra l’altro insegno. Cito, per esempio, Giuseppe Anastasi che ha scritto le canzoni per Arisa. Sono gli spazi ad essere ridotti. I talent hanno dato qualche possibilità in più ai giovani artisti ma bisogna stare molto attenti perché la notorietà che ti porta un programma televisivo può svanire in un lampo se non ci sono basi solide, tanta gavetta e soprattutto un progetto.

-Con Anastasi ha anche scritto un libro, se non sbaglio.
«Sì, diamo consigli su come si scrive una canzone. Sono 10 anni di appunti presi durante le lezioni al Cet e si intitola Scrivere una canzone, edito da Zanichelli».

-C’è un autore che apprezza più di altri?
«Mi piacciono molto i testi delle canzoni di Simone Cristicchi».

 -Sta scrivendo qualcosa in questo periodo?

«Sì, per Laura Pausini».

-Mogol le ha mai dato dei consigli?
«Mi è servito moltissimo quando, all’inizio della carriera, mi disse:”Quando fai qualcosa devi esserne soddisfatto tu. Non devi lasciarti condizionare dagli altri . Cerca solo di dare sempre e comunque il meglio e ricorda che il dopo non dipende da te. Il successo è un insieme di tanti fattori, a volte indipendenti dalla bravura o dall’impegno”».

-Lei ha due figli, Pietro di 14 anni e Bianca di 12. Possiamo già parlare della quarta generazione di artisti in casa Rapetti?
«Ne sarei molto contento. Pietro sembra più predisposto verso la scrittura e Bianca verso la pittura-scultura. Per il momento, né li spingo né li freno. Sarà il tempo a chiarire le loro inclinazioni con la speranza che la tradizione di famiglia possa continuare».   

Monica Sala
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