22/08/2012
La memoria? Sarà salvata dalle nuove tecnologie. E andare a scuola e studiare, grazie a Internet, potrebbe diventare sempre più stimolante e coinvolgente. Studioso di lungo corso delle comunicazione, intellettuale fra i più autorevoli in Europa, saggista raffinato e romanziere di successo (Il nome della rosa su tutti), Umberto Eco non poteva non confrontarsi con i vertiginosi progressi che la tecnologia ha vissuto negli ultimi anni e, in particolare, con l’avvento della Grande Rete.
Intuitene le straordinarie potenzialità, senza chiudere gli occhi alle insidie che le sono insite, ha cercato di mettere la nuova tecnologia al servizio del sapere e della sua divulgazione. Così è nata Encyclomedia (www.encyclomedia.it), un’enciclopedia - di cui è direttore - di nuova concezione che racconta la storia dell’umanità istituendo relazioni, proprio in virtù delle prerogative di Internet, fra letteratura, scienze, arte, musica, economia, società, religione... Viaggiare avanti e indietro nel tempo, scoprire affinità e vicinanze relazioni altrimenti nascoste fra campi del sapere, collegare un autore alle sue opere o ai suoi libri diventa davvero un gioco da ragazzi.
L’applicazione dello strumento alla didattica era scritto nel suo Dna: da settembre 240 mila studenti studieranno la storia avvalendosi di questa piattaforma, adottata insieme ai manuali Laterza. L'utilizzo di manuali scolastici «nelle versioni a stampa, on line scaricabili da Internet, e mista» è peraltro previsto dall'articolo 15 della legge 133 del 2008. Per questo, tutti gli editori che si occupano del mondo della scuola - da Pearson a Zanichelli - hanno messo a punto nuove proposte didattiche digitali, come ad esempio i Limbook (libri in grado di interagire con la lavagna digitale).
Professor Eco, in che modo l’utilizzo di strumenti multimediali può offrire nuove opportunità alla costruzione di una memoria condivisa?
«Oltre a custodire la memoria storica, gli strumenti multimediali possono essere dei dispositivi per rinforzare la capacità di ricordare. Una delle tragedie del nostro tempo è che si conosce solo il presente. La perdita della memoria è un problema specie in America, dove i ragazzi non vanno oltre George Washington e confondono i centurioni romani con i tre moschettieri. L'assenza di memoria è un male per il futuro».
La “tecnologia del futuro” salverà il passato?
Sarebbe un bel paradosso...
«Sì, certo. Il progetto di Encyclomedia parte addirittura dal Big Bang e arriva ai giorni nostri. L’idea da cui siamo partiti era quella di mostrare quanto tempo passava tra i dinosauri e la nascita di Roma, rendendo evidente come lo spazio tra questi eventi sia amplissimo, mentre è molto breve tra Gesù Cristo e la bomba atomica: in quei 2000 anni si è concentrato il massimo della storia che ci interessa. Il primo grande strumento di Encyclomedia sono proprio le cronologie che permettono di ordinare e comprendere le relazioni tra gli eventi e i personaggi creando mappe visuali con avvenimenti, personaggi e idee.
Ho iniziato a pensare a questo progetto 20 anni fa, quando del web non si aveva ancora un’idea precisa. Nella metà degli anni '90 con Danco Singer realizzammo i primi Cd-Rom: non si sapeva che un giorno, si sarebbe potuto avere tutto, dall’antichità ai giorni nostri, in linea. Il grande ipertesto di Encyclomedia era già pronto per Internet, e oggi esiste lo strumento attraverso cui può esprimere appieno le sue potenzialità».
Uno dei punti di forza dei nuovi strumenti didattici multimediali è l’interattività: grazie a essa si riuscirà a rendere meno passivo l’apprendimento dei giovani?
«Assolutamente sì. Spesso i giovani non sanno quanto tempo separasse sant’Agostino da San Tommaso, Nerone da Hitler. Encyclomedia permette di chiarire se ci troviamo nel medesimo periodo storico o no, perché consente di muoversi non solo nel tempo, ma anche nello spazio, attraversando tutte le discipline. Giocando con le cronologie possiamo chiederci se Immanuel Kant abbia mai incontrato Napoleone, e capire se un certo personaggio era contemporaneo di una scoperta scientifica o di un dato evento politico può riservarci grandi sorprese. Si può far navigare con pochi movimenti delle dita nel tempo e nello spazio per cortocircuiti istantanei. Se, leggendo una scheda su uno scienziato, si vuole sapere in quale ambiente artistico vivesse, o quali altri scienziati conoscesse, da quella scheda partirà un invisibile filo rosso attraverso migliaia di altre schede.
In questa navigazione si possono incontrare saggi approfonditi corredati da opere d’arte, suoni, video. E anche chi non ha un preciso progetto di ricerca potrà navigare come se giocasse...».
La didattica digitale può rivelarsi più coinvolgente per le nuove generazioni (foto Getty).
L’interdisciplinarietà dell’approccio può aiutare a superare l’eccessiva specializzazione tipica del
sapere odierno, favorendo una visione più completa della realtà, storica
e presente?
«Nello zainetto, un ragazzo che va a scuola mette il libro di geografia,
di storia dell'arte, di grammatica... Si sa, quando non c'è una
materia, non porta di certo il libro.
Con Encyclomedia lo studente può avere a disposizione tutte le materie
sempre con sé. E così se studia il Giappone in geografia può scoprire
come dipingevano i giapponesi mentre da noi c'era Raffaello.
Per creare questi collegamenti bisognerebbe mettere una trentina di
libri cartacei sulla scrivania, cosa che uno studioso sa fare, mentre un
giovane deve essere aiutato e guidato».
Le scuole italiane e il corpo docente le sembrano pronte ad accogliere
questa sfida?
«Ancora non c’è un insegnante nato nell’informatica. Non ci sono i
nativi, ma soprattutto manca una tecnica: se nelle scuole si insegnasse Internet, l’insegnamento non sarebbe grammaticale, ma testuale, per
riprendere la distinzione di Lohmann fra culture grammaticali fondate su
regole e culture testuali fondate su esempi (per intenderci: il Vangelo
appartiene alla classe delle culture testuali, perché si compone di
esempi, il catechismo a quella delle culture grammaticali). Un altro
modo più strutturato, consiste nel far sì che si educhi lo spirito
critico in azione: basta poco perché lo scolaro faccia scoperte
importanti.
Encyclomedia si presenta come un sito affidabile e costituisce uno
strumento adatto allo studio: se andassi a prendere tutti i saggi di
filosofia che contiene, avrei l'equivalente dei manuali in uso nelle
scuole, anzi, qualcosa di meglio, di più: perché oltre a ciò che dicevano
i filosofi, posso scoprire come si viveva e quali artisti lavoravano in
quel periodo. Poi, certo, sta anche all'insegnante sapere usare
Encyclomedia: scegliendo».
Nella sua introduzione on line a Encyclomedia lei ricorda il rischio
fondamentale di Internet: l’impossibilità di verificare e vagliare le
fonti. A circa vent’anni dall’avvento della Rete, ritiene che il maggior
rischio connesso alla navigazione sia sempre questo?
«In Internet c'è tutto, c'è troppo. Con Encyclomedia l'utente può essere
aiutato da una formazione al filtraggio. Nella storia del sapere umano
le enciclopedie hanno rappresentato "quello che è interessante sapere".
Le enciclopedie servono a mantenere la memoria, ma anche a buttare via
quello che non serve. Internet invece rischia di farci mangiare tutto,
anche quello che non serve. Un'enciclopedia che parla lo stesso
linguaggio di Internet ci aiuta a filtrare: permette
insomma di dare una "disciplina della memoria"».
Una schermata di Encyclomedia.
Un saggio recente di Nicholas Carr si intitolava “Internet ci rende
stupidi?”. Per l’autore, la risposta era sì, in quanto ci rende meno
capaci di concentrazione. Qual è la sua idea?
«Internet è come una sterminata biblioteca senza filtraggio. La virtù
delle biblioteche, come delle enciclopedie, non è soltanto quella di
conservare la memoria, ma di buttare via quello che a una cultura non
serve. Se non buttassimo via nulla saremmo come Funes el memorioso, di
un racconto di Jorge Luis Borges. Questo personaggio ricordava tutto:
era un uomo dalla memoria totale, incapace di ragionare, perché incapace
di filtrare. Internet è come Funes: contiene tutto, il vero e il falso,
il che è un grave rischio soprattutto per i giovani. Quanto alla
capacità di concentrazione, è vero che siamo sottomessi a un intenso
flusso di informazioni che rafforzano la smemoratezza, e proprio in
questo senso è essenziale sapere compiere un’operazione di filtraggio».
Il Medioevo, a cui ha dedicato i volumi nell’ambito della Storia della
civiltà europea, è forse il periodo storico più citato e meno
conosciuto: da cosa nasce tale “pregiudizio e qual è l’eredità che
ha lasciato al mondo moderno, visibile anche nella contemporaneità?
«In realtà i secoli bui sono quelli che hanno preceduto l’anno Mille,
dopo la caduta dell’Impero romano, con le invasioni barbariche, lo
spopolamento delle città, l’abbandono di terreni prima coltivati. Nel
contempo però sono stati i secoli che hanno visto nascere le lingue che
parliamo oggi, per esempio. Inoltre, come lei ricorda, il Medioevo ci ha
lasciato invenzioni e istituzioni, che rimangono fondamentali anche per
la vita quotidiana di oggi: i mulini ad acqua e a vento (pensiamo
all’importanza crescente oggi dell’energia eolica), le università, le
banche, la carta, il camino, gli occhiali…
Un autorevole esponente dello scorso Governo pronunciò una frase che
diventò celebre: “Con la cultura non si mangia”. Come è possibile, a suo
avviso, convincere i nostri governanti e gli italiani tutti che il
nostro patrimonio culturale deve essere valorizzato e non svilito, per
il suo valore sociale e civile, ma anche come fattore economico?
«La straordinaria ricchezza paesaggistica, architettonica, artistica
dell’Italia, e il fatto che possa attirare flussi turistici e muovere
economie mi paiono fuori discussione. Ma a parte questo, la società
civile per essere realmente tale deve fondarsi su un sapere collettivo e
condiviso. Per criticare questo sapere occorre una stessa base di
discussione: una cultura è il fondamento dell’identità collettiva.
Partendo da un’enciclopedia condivisa, fatta di ciò che si è conservato
ma anche eliminato, nasce la discussione, il confronto che fa progredire
le idee».
Molti propongono di disincentivare l’iscrizione alle facoltà
umanistiche, fucina di precari, a favore di quelle scientifiche, di cui
la società ha bisogno. Non abbiamo più bisogno di filosofi e letterati?
«La cultura umanistica diventa anzi sempre più utile, per interpretare
una società che diventa sempre più complessa, e che impone anche un
superamento delle specializzazioni, e insieme un continuo superamento
dei paradigmi dominanti, che si moltiplicano e succedono sempre più
velocemente».
Paolo Perazzolo