13/05/2013
Lo scrittore Beppe Fenoglio
Quando lo scrittore Beppe Fenoglio morì, sua figlia Margherita aveva appena due anni. Suo padre rivive nel suo sguardo, nell’amore per le radici e per i valori a cui l’autore di capolavori come Il partigiano Johnny e La malora consacrò la sua vita e il suo impegno culturale. Ne emerge il ritratto di un fine intellettuale, narratore dei drammi e delle virtù delle Langhe attraverso una scrittura nello stesso tempo introspettiva e cinematografica. Sulle orme di John Steinbeck: perché il sudore e la durezza della vita sono uguali, in ogni parte del mondo. E proprio dal legame di Fenoglio con la terra inizia la chiacchierata con Margherita per toccare altri temi, primo fra tutti la Resistenza.
Non si può amare fino in fondo Beppe Fenoglio e la sua opera senza conoscere il suo rapporto con il mondo contadino. È vero?
«La Langa di allora è molto diversa da quella di oggi, meta di turismo e di amanti dell’enogastronomia. Era una terra solcata dalla durezza e dall’asprezza dell’esistenza. Non si mosse mai da questi posti, se non in rari casi: penso al viaggio di nozze a Ginevra e per assistere alle partite della sua amata Juventus».
Un rapporto stretto anche con le persone, quindi?
«Certo, mio padre era di casa a San Benedetto Belbo: frequentava le cascine, i bar, le trattorie. Questo paese ha onorato mio padre nel 1970 con una via intestata a suo nome. Qui è rimasto affascinato dalla vita dei contadini e dalla loro cultura. Come scrittore sentì il dovere morale di raccontare questa cultura. Dopo aver terminato La Malora disse a mia madre: “Se io non avessi scritto questo libro, nei prossimi anni di questo mondo contadino nessuno si ricorderebbe più niente”. A proposito de La Malora desidero sottolineare ancora un particolare».
Quale?
«Nonostante il giudizio di sufficienza con cui Elio Vittorini liquidò nella quarta di copertina il libro edito da Einaudi, mio padre era convinto di essere un bravo scrittore e di aver realizzato un’epopea del mondo contadino che va al di là dei confini del romanzo. La Langa come metafora della durezza del vivere, “ questa langa - come fa dire a Tobia, protagonista de La Malora - che ti piglia la pelle a montarla prima che a lavorarla.” Un’esperienza antica, ma attuale: oggi la fatica di quella Langa rivive in altre parti del mondo».
Le Langhe: terra di partigiani e di Resistenza. Un altro aspetto legato indissolubilmente con la letteratura di suo padre.
«Non c’è dubbio. Mio padre era del 1922. Per quelli della sua generazione la Resistenza significò la fine di una gioventù appena sbocciata. Li costrinse a diventare grandi subito. Di questo vado fiera».
Perché Beppe Fenoglio si avvicinò alla Resistenza?
«Mi è stato detto da molte persone che lo hanno conosciuto, in primo luogo da mia mamma che il liceo e la Resistenza furono due momenti fondamentali per la sua maturazione umana, culturale e civile. Il liceo classico “Govone” di Alba fu una palestra di educazione alla libertà di pensiero: questo grazie a maestri come Leonardo Cocito, il professore partigiano che esercitò un’enorme influenza su mio padre. Fu maestro di vita come testimonia un aneddoto a cui sono molto legata. Fin da ragazzo detestava il fascismo anche dal punto di vista estetico. Il professor Pietro Chiodi, un’altra figura di rilievo del liceo “Govone” di quegli anni, descrisse in una lettera un episodio illuminante. Gli allievi dovevano svolgere come compito in classe un tema sull’impero romano e i legami con il fascismo. Passava il tempo, ma mio padre continuava a lasciare il foglio bianco. Preoccupato, il professor Chiodi andò dal collega Cocito chiedendogli di convincere Fenoglio a scrivere qualcosa. Ma la pagina rimase bianca».
Dal liceo alla Resistenza, dunque. Anche se suo padre non fu molto amato da alcuni ambienti per come approcciò questa stagione della storia italiana.
«Beppe Fenoglio non gettò mai fango sulla Resistenza, ma neanche ne fece un’apologia. Per questo fu malvisto da una certa critica di sinistra che a tutti costi voleva una Resistenza “alta, bionda e con gli occhi azzurri”. Grazie alla lotta partigiana, l’Italia ebbe un sussulto di libertà che portò alla democrazia: ma mio padre come scrittore ne illustrò anche le debolezze, i nodi irrisolti, i dubbi di una generazione che – come ho detto prima – ha dovuto scegliere in fretta. E lo fece con onestà morale e intellettuale. Per questo, a distanza di anni è ancora molto amato. Non passa giorno che sulla sua tomba non ci sia un biglietto o un fiore nuovo».
Margherita Fenoglio, unica figlia del grande scrittore Beppe.
Amato anche dai giovani?
«Sì, da sempre. Ricordo un 25 aprile di alcuni anni fa, qui ad Alba. Si organizzò un concerto rock , preceduto da letture tratte dai suoi libri e dai suoi racconti. Gli organizzatori in un primo tempo se ne pentirono: i ragazzi avrebbero atteso il concerto ascoltando Fenoglio senza alzarsi prima dalla sedia? Ebbene, durante le letture non volava una mosca, i giovani erano completamente assorti. Ancora oggi nelle scuole succede la stessa cosa».
Suo padre fu uno scrittore dell’Einaudi, la stessa casa editrice di Italo Calvino. Quale furono i rapporti tra due figure così importanti e così vicine per età?
«Da quello che so vi era una profonda intesa reciproca. Calvino incoraggiò più volte mio padre e alla notizia della sua morte, giunse in Einaudi profondamente addolorato. Sul piano umano non si può parlare di una vera amicizia: erano altri tempi, un altro modo di intendere i rapporti. Mi piace ricordare un aspetto. Nella prefazione al Sentiero dei nidi di ragno, Calvino delinea un percorso ideale nella letteratura resistenziale, che inizia con questo suo romanzo d’esordio e si conclude con Una questione privata scritto da mio padre. Sul valore di questo libro, fondamentale per capire le spinte emotive dei ragazzi che parteciparono alla lotta partigiana, Calvino afferma senza esitazione: “Tutto quello che c’era da dire sulla Resistenza adesso c’è”».
Le Langhe, la Resistenza, l’incontro con la cultura ufficiale. Un ultimo tassello per completare il mosaico. Il rapporto di Beppe Fenoglio con la fede.
«Mio padre non era credente. Si sposò civilmente e non volle funerali religiosi. Conosceva, però, le Sacre scritture e dentro di sé provò sempre un afflato verso la spiritualità e il Cristianesimo. Penso che lo spingesse la ricerca di un umanesimo e il desiderio di comprendere il senso della vita. Per questo non si sottrasse mai al dialogo con uomini di fede. Non è un caso se ai suoi funerali che lui volle appunto “laici, senza fiori, senza soste, senza discorsi" partecipò quella straordinaria figura religiosa che fu il teologo albese don Natale Bussi».
Giorgio Trichilo