10/05/2013
Un'immagine recente di Renato Zero.
Se Vasco Rossi fa lunghe passeggiate e usa sigarette elettroniche per rimettersi in forma in vista del ritorno sul palco, Renato Zero si limita a «giocare a scopone scientifico. È anche un ottimo esercizio per imparare a conoscere gli altri». Del resto il tour de force che per oltre un mese lo impegna al Palalottomatica di Roma per lui è solo «un piacere. Il piacere di raccontare la mia felicità agli altri. In un momento in cui la depressione cerca di impossessarsi delle nostre anime, mi sforzo di comunicare l’urgenza di reagire, di uscire da questo tunnel buio». Ma c’è di più. Grazie ad Amo, il suo ultimo Cd, Zero ha conquistato un invidiabile primato: è l’unico artista ad avere avuto almeno un disco al primo posto in hit parade in ben cinque decenni. Questo bagno di folla è quindi anche un risarcimento nei confronti di quella parte della critica che non gli ha ancora tributato i riconoscimenti che merita: «Visto che non me lo danno gli altri, con questi concerti mi do l’Oscar della musica da solo». E dire che una ventina di anni fa, dopo alcuni album poco fortunati, il cantautore aveva seriamente pensato di ritirarsi. Poi arrivò il riscatto nel 1991 a Sanremo con Spalle al muro, ma certe ferite ci hanno messo molto a rimarginarsi.
E se oggi può cantare in una canzone del suo ultimo disco «la vita che mi aspetta non mi fa paura» è solo perché ha conosciuto davvero la sofferenza. «Quando leggo notizie di persone che si sono tolte la vita, mi si stringe il cuore perché anch’io ci sono andato vicino. In alcuni momenti, il dolore era diventato insopportabile, ma sono riuscito a superarlo grazie agli insegnamenti e all’affetto della mia famiglia e grazie alla fede. Da piccolo mi era stato inculcato un Dio che sa solo punire, invece ho scoperto la leggerezza meravigliosa delle Sacre Scritture». Oltre alla famiglia, Zero ha potuto contare sul sostegno di un ristretto numero di amici veri. Ci tiene a ricordarne due, entrambi scomparsi da poco. Franco Califano: «Il nostro comune amico Edoardo Vianello mi ha telefonato per dirmi che, scartabellando fra le sue carte insieme alla sorella di Franco, ha trovato una specie di vocabolario scritto da lui. Alla lettera “Z”, aveva annotato: “Zero da solo non vale niente, con Renato davanti vale tantissimo”. Era un uomo puro, generoso con tutti».
E poi Lucio Dalla, a cui ha dedicato Lu, una delle canzoni del suo ultimo disco. «L’incontro con lui per me è stato come la presa della Bastiglia: ho pensato che con un alleato simile sarei stato meno solo nella mia battaglia contro gli stupidi conformismi. Era sdraiato su un montacarichi, con un’arancia in testa, 100 lire sulla fronte e faceva su e giù con lo sguardo immobile. Come si fa a non voler bene a uno così?».
Renato Zero duetta con Gianni Morandi durante il concerto a Bologna per ricordare il comune amico Lucio Dalla
Nel disco c’è un’altra canzone dedicata a una persona, Angelina, la
portinaia del condominio dove Renato viveva quando era un ragazzo: «Era
la garante dei miei sogni. Qualunque cosa mi succedesse durante la
giornata, ero sicuro di poter contare, quando entravo e quando uscivo,
sul suo sorriso disinteressato». Sono gli anni in cui Renato Fiacchini
(è il suo vero cognome) bazzica il Piper di Roma insieme a tre giovani
come lui, piene di talento: Patty Pravo e due sorelle giunte dalla
Calabria, Loredana Berté e Mia Martini. Cantante e ballerino, va in giro
con costumi e trucchi sgargianti di sua ideazione. Il pubblico, però,
non apprezza, tanto che la frase che si sente ripetere più spesso è:
«Sei uno zero». Lui però non si abbatte e anzi decide che quello
diventerà il suo marchio di fabbrica. «Ho preso tante botte, ma pure
quelle sono servite», ricorda adesso Renato. Spesso davanti al Piper
passa una camionetta della polizia che carica tutti e li porta al
commissariato Campo Marzio, dove lavora il padre Domenico. Il quale,
quando vede il figlio, allarga le braccia ed esclama sconsolato:
«Un’altra volta!». «Ma non mi ha mai ostacolato», dice ancora Renato.
«Era un poliziotto di origini contadine. Una persona semplice che ha
sempre avuto grande rispetto per me, perché mi conosceva e sapeva che
non avrei mai tradito i suoi insegnamenti».
E così arrivano gli anni
’70, quando scoppia la “zerofollia”: Renato diventa un’icona della
trasgressione e al tempo stesso scrive canzoni come Il cielo, in cui
invita un giovane a non aver paura di affrontare una paternità non
voluta, o come La tua idea, una poetica invettiva contro la droga con
parole mai così esplicite nella musica italiana: «Ti mostrano il sorriso
e poi li scopri assassini. Ti vendono la morte pur di fare quattrini. E
sulla pelle del tuo ultimo fratello innocente, c’era rimasto un buco
solamente». Zero diventa il “re dei sorcini”, i suoi fan che da allora
non lo hanno più abbandonato. «Più di tutti i dischi che ho venduto, la
mia soddisfazione più grande è aver conquistato quei romani che da
ragazzo mi dileggiavano». Con la sua città, Renato ha mantenuto un
rapporto di amore viscerale: «Non posso fare a meno ogni giorno di
sentire il contatto con i romani più veraci. Per questo giro nei
mercatini, nei bar: ho bisogno di sentire che la gente mi vuole bene».
Quel bene che Renato ha donato a Roberto, il ragazzo cresciuto in un
orfanotrofio che ha adottato e che l’ha reso nonno di due nipotine,
Virginia e Ada, di sette e sei anni. «Cosa faccio quando sono con loro?
Il cretino», ride Renato. «Per loro invento filastrocche, gioco a palla
avvelenata, faccio qualsiasi cosa per farle divertire». Compresa la sua
specialità: i travestimenti. «Quando andiamo al ristorante, uso la
tovaglia come un mantello e i tovaglioli di carta li trasformo in
maschere e cappelli. Loro ridono come matte. E, ovviamente, anch’io.
Perché in tutta la mia vita non ho mai smesso di giocare: il mio cuore è
rimasto quello di un bambino».
Eugenio Arcidiacono