07/05/2013
Il doppiatore Mario Cordova.
«Vedi un film americano, ambientato a New York, il protagonista guida un’auto americana, apre bocca e parla italiano, ma tu non ci fai nemmeno caso: vuol dire che il doppiaggio è perfetto, significa che hai dato voce e anima a quell’interpretazione. Tutto è dato per scontato. Solo se il doppiaggio è brutto, se ne parla subito e male». È la testimonianza di Mario Cordova, uno dei doppiatori più illustri del cinema italiano. Mario è anche attore: era l’invalido nel film Qualunquemente con Antonio Albanese ed ha partecipato a fiction di successo come Centovetrine. Al cinema, è anche la voce di grandi nomi americani.
È un vantaggio per un doppiatore essere anche attore come nel tuo caso?
«È fondamentale. Doppiare significa, comunque, recitare su dei ritmi, dei tempi decisi da un’altra persona, ma che tu devi farli tuoi per rispettare l’atmosfera e il racconto cinematografico. Il doppiaggio non è un mestiere a parte, è una specializzazione dell’attore. Oggi sono pochi i casi di colleghi unicamente doppiatori».
L’Italia vanta una prestigiosa tradizione nel campo del doppiaggio. Cosa abbiamo in più?
«Il doppiaggio è nato in Italia durante il fascismo per salvaguardare la nostra lingua. Oggi siamo ancora i più bravi in assoluto. Ci tengo molto a difendere il nostro mestiere: molti vorrebbero film in lingua originale e sottotitolati. Secondo me leggere i sottotitolo spezza il rapporto, l’empatia tra la storia e lo spettatore. Come ho detto prima, il doppiaggio è recitazione e quindi un valore aggiunto. I puristi non sono d’accordo; a pensarci bene, allora, il discorso vale anche per la letteratura. Un’opera di Shakespeare o Hemingway tradotta in italiano e, in qualche modo riscritta, reinterpretata».
Esiste una nuova generazione di doppiatori?
«Certamente. I giovani sono sempre più attratti da questa professione. Per via della crisi che ha investito anche il cinema e il teatro molti giovani attori bussano alle porte delle scuole e, in seguito, degli studi di doppiaggio. Alcune volte, come in altri settori, la domanda è maggiore dell’offerta».
Richard Gere in una scena del film "Hachiko".
Se il doppiaggio è recitazione, il doppiatore deve riuscire a entrare nello stile dell’attore a cui presta la voce. È difficile?
«Nei confronti dell’attore il doppiatore ha un vantaggio e uno
svantaggio. L’attore recita un copione, si confronta con il regista per
dare un’identità precisa al personaggio. Tutto questo il doppiatore se
lo risparmia, ma ha un handicap: il doppiaggio avviene in una sala di
registrazione. Se per caso devo doppiare una scena che si svolge in
spiaggia, mi tocca fare uno sforzo di fantasia per immedesimarmi anche
nell’ambiente, nella scena oltre che nel personaggio. E poi c’è un altro
punto da non sottovalutare: la recitazione non è solo voce, ma anche
sguardo, anima. E il doppiaggio non può sottovalutare o tradire questi
aspetti».
Sei la voce italiana di Jeremy Irons, William Defoe, Bruce Willis e
Arnold Schwarzenegger? Quale tra questi è l’attore più difficile da
doppiare?
«Jeremy Irons sicuramente. Ha una voce molto impostata, molto "british"
per intenderci e quindi devo lavorarci molto sopra per rispettare la sua
essenza. Il mio sforzo mi è stato riconosciuto dallo stesso Irons con
il quale ho un rapporto di amicizia e mi prega sempre di non smettere di
doppiarlo».
Sei anche la voce di Richard Gere.
«Sì, a lui devo la mia fama di doppiatore. La sua impostazione vocale e
il suo stile interpretativo sono molto nelle mie corde, per cui riesco a
doppiarlo senza difficoltà, riuscendomi anche a divertire».
Gli attori che tu doppi sono molto amati dal pubblico. Quanto è merito tuo?
(Mario scoppia in una fragorosa risata, ndr.). «Non ci crederete quante
volte amici e colleghi mi chiedono di chiamare la loro mamma, la cugina,
la moglie o la fidanzata. Il più gettonato, naturalmente, è Richard
Gere: chiamo le persone, le saluto, mi intrattengo al telefono e alla
fine sono contente di aver parlato con il loro attore preferito. La
magia del cinema passa anche da qui».
Giorgio Trichilo