Anche i ricchi piangono

Succede a una dinastia industriale milanese nel film "Io sono l'amore".

15/04/2010
Una scena di "Io sono l'amore".
Una scena di "Io sono l'amore".

In una Milano resa quanto mai suggestiva da un candido manto di neve, gli ambienti sontuosi di una villa principesca fungono da palcoscenico ai fastosi riti mondani di una ricca dinastia industriale. Tra riflessi di cristalli e armonie floreali si consuma il copione abituale che prelude al passaggio di consegne di un ricambio generazionale.

Gli avvicendamenti alla guida dell’impresa familiare fanno parte di una strategia di gruppo che mira al consolidamento di un impero con l’ostentato orgoglio di appartenenza a una classe illuminata, fiera del proprio ruolo. Ma un corpo estraneo vìola l’invulnerabilità di un mondo esclusivo e impenetrabile, toccando il cuore degli anelli più deboli della catena: Emma, la madre, ed Edoardo, il figlio. Emma è di origine russa ed era fuggita nel mondo libero prima della caduta del Muro, sicura che lusso e agiatezza avrebbero potuto esaudire i suoi sogni, ma anche Edoardo si è nutrito di illusioni, convinto che la spontaneità e la freschezza dell’amico Antonio, giovane di estrazione popolare con il quale condivide una vitalità fino ad allora sconosciuta, possano aprire nuovi orizzonti all’azienda familiare (fra l’altro la presa di coscienza di un’etica del lavoro che si oppone al licenziamento degli operai).
 
Antonio è l’elemento di disturbo che sconvolge l’apparente solidità monolitica della famiglia e la cucina (non fondata sulla tradizione, come le rigide regole che governano la famiglia, ma sulla creatività) è l’arma della seduzione. Tramite Antonio, Emma e il figlio Edoardo vivovo l’attrazione di un mondo diverso, autentico, genuino, che sconvolgerà le loro vite provocando effetti profondamente diversi. Interpretato (e prodotto) da Tilda Swinton, che ne aveva accarezzato il progetto fin da quando era stata diretta da Luca Guadagnino in The Protagonists, Io sono l’amore è la moderna versione di una Madame Bovary che supera i residui ostacoli frapposti a un’emancipazione femminile non ancora del tutto affrancata da un pesante condizionamento. Calligrafico, elegante fino al preziosismo, il film di Guadagnino tratteggia con tocchi algidi e distaccati la dissoluzione di una classe sociale e la prepotente affermazione di un’altra. Tanti, pure troppi, i modelli di riferimento. Da Teorema di Pasolini a Visconti, passando per le gelide atmosfere di Antonioni, l’Amante di Lady Chatterley di D.H. Lawrence e le larghe maglie di un mélo che lasciano filtrare in egual misura qualità e difetti.

Enzo Natta
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