13/02/2012
Un'inquietante scena de "L'angelo di fuoco" (foto Ramella&Giannese).
Pochissimi ricordano, e forse neppure lui, che il baritono Rolando Panerai prese parte alla Fenice di Venezia, il 14 settembre 1955, alla prima rappresentazione de L’angelo di fuoco di Sergej Prokof’ev, morto già da due anni. L’opera, nel suo italico vagabondare (25 finora le edizioni, di cui metà negli anni Settanta), è ricomparsa dopo oltre 40 anni a Torino, ribadendo il suo pieno diritto a figurare nel repertorio di un grande teatro quale il Regio certamente è. Il pubblico, per quanto disabituato a questo genere di musica, non poteva restare insensibile dinanzi alla straordinaria ricchezza di questa partitura visionaria e immaginifica.
Nel decadente simbolismo di Valerij Brjusov, autore del romanzo ispiratore di Prokof’ev, convergono infatti l’estetizzante goticismo cinquecentesco (le sagome alte e aguzze di una stilizzata Colonia d’impronta faustiana) e il fenomeno dell’isteria portato a livello parossistico in chiave demoniaca con implicazioni freudiane: il tutto sottolineato da una tensione musicale che non conosce soste d’intensità, ma anzi, soprattutto nella seconda parte, tocca vertici espressivi elevatissimi, che coinvolgono l’ascoltatore in modo totalizzante.
Arduo è il compito di chi programma quest’opera. Bene ha fatto quindi il Regio ad appoggiarsi al Mariinskij di San Pietroburgo, importandone lo spettacolo, musicalmente perfetto e di notevole efficacia scenica, firmato dalla tumultuosa bacchetta di Valerij Gergiev e dal regista David Freeman. Nella parte massacrante della protagonista si è distinta Mlada Kudoley, di cui ho potuto apprezzare la forza scenica e il vigore vocale.
Giorgio Gualerzi