Calabresi: l'Italia brilla ancora

Con un libro e un programma Tv, il direttore della "Stampa" ci ricorda le grandi risorse di cui il nostro Paese ancora dispone. No all'eccesso di pessimismo.

06/06/2011
Un'aula universitaria:  il destino dei giovani italiani è al centro del libro e del programma Tv di Mario Calabresi.
Un'aula universitaria: il destino dei giovani italiani è al centro del libro e del programma Tv di Mario Calabresi.

Ne stringe una pugno, sia pure con una certa rigidità, anche il manichino della boutique a quattro passi da via Marenco, dove ha sede La Stampa. E’ una delle 80 mila bandiere tricolori che il quotidiano ha distribuito a Torino per i 150 anni dell’unità d’Italia, e che ancora sorridono sui balconi della città. “Ne avevamo preparate 20 mila e già ci pareva un’enormità”, racconta il direttore Mario Calabresi, “poi però la gente non smetteva più di telefonare e di protestare perché non la trovava in distribuzione, e così siamo arrivati a quella cifra”.

     In questo periodo conviene parlare di patria e nazione con Calabresi, 41 anni, nell’Italia gerontocratica forse il più giovane direttore di una qualunque cosa importante. E vedremo tra poche righe perché. Prima è giusto che ci dica che cosa intende per “patria”: “Intanto è una parola che a me piace, e mi piaceva anche quando era un tabù. E’ la sintesi perfetta dell’idea di terra dei padri, il luogo non solo fisico in cui viveva chi c’era prima di noi. Ciò da cui veniamo”.

- Ma c’è ancora un’idea comune di patria? Una patria per tutti gli italiani?

     “Non so. Ma so questo: per me i 150 anni sono stati un omaggio a mio nonno. Uno di quelli cresciuti con i pantaloni corti fino a 18 anni, studente-lavoratore, sposato nel 1939 e subito dopo partito militare. Prigioniero di guerra, era tornato a casa, qui a Torino, con niente. Allora convinse un amico a fargli un prestito e rilevò un intero capannone di coperte militari. Poi arruolò un gruppo di sartine senza lavoro, e da quella stoffa spessa un dito ricavò un bel po’ di cappotti. Pesantissimi, rigidi, ma nell’inverno del 1945 andarono tutti venduti e lui potè restituire il prestito e fare anche un certo guadagno”.

     Parlare di patria con Calabresi ha oggi tre volte senso. Perché è appena uscito un suo libro, Che cosa tiene accese le stelle (Mondadori), con le storie di tanti italiani più o meno (spesso meno) famosi che, continuando a credere nel futuro, tengono in piedi questa nostra Italia. Perché su Rai3 parte questa sera un suo programma, Hotel Patria (appunto), che ha la stessa filosofia del libro. E perché (ma questo lo dico io) gocce di questa filosofia stillano ogni giorno dalla sua rubrica delle lettere. Quella a cui i lettori scrivono, e qualche volta si aggrappano, per confidarsi e confidare una certa disperazione.

     “Quando sono arrivato alla Stampa da New York, dov’ero corrispondente, ho sentito l’esigenza di scoprire chi fossero i miei lettori, di capire che cosa li entusiasmava o li faceva arrabbiare. E mi son preso l’impegno di rispondere in prima persona alle lettere. Una collega, Sara Ricotta, me le divide per argomento e io ne leggo 30-40 al giorno. Prende tempo ma è di molta soddisfazione. E alla lunga ti dà un certo polso della situazione. Per esempio: due anni fa le lettere a favore o contro il Governo erano 50 e 50. Da molti mesi, invece, quelli contro sono rimasti uguali, sono scomparsi quelli a favore e sono cresciuti enormemente i disillusi, diciamo pure i disgustati”.

- Che sono quelli ai quali, con il libro e il programma, in qualche modo ti rivolgi.

     “Ho scritto tre libri. Due con vera urgenza. Il primo, Spingendo la notte più in là, perché non potevo accettare che la stagione del terrorismo venisse chiusa senza aver in qualche modo ascoltato anche la voce delle vittime. E questo appena uscito, perché… Sento ormai ovunque, anche nell’ascensore di casa, i discorsi sul declino, inarrestabile e inevitabile, del nostro Paese. Certo, non possiamo far finta di niente di fronte ai problemi, ma da questo a dire che l’Italia è finita, e soprattutto dirlo ai giovani… Quindi: non buttiamo via tutto. E per prima cosa, recuperiamo le conquiste, spesso enormi, fatte fin qui. Nel 1961, centenario dell’unità d’Italia, il 30% degli italiani non mangiava la carne. Mai. Fino agli anni Settanta, la leucemia infantile aveva il 100% di prognosi infauste. Oggi più dell’80% dei bambini riesce a guarire. Queste cose, insieme con molte altre, ce le siamo dimenticate ed è invece importante averne memoria”.

- Perché, allora, così tanti italiani sono così tanto pessimisti?

     “Credo dipenda da questo: per la prima volta i padri non hanno più la certezza che i figli staranno meglio di loro. Più che temere un brutto futuro, sembra che molti non riescano a immaginare un futuro, uno qualunque. E così passano messaggi assurdi, dannosi. Negli ultimi tre anni sono calate le iscrizioni all’Università. Perché sempre più spesso si sente dire “cercati un lavoretto“ oppure “prendi un diploma, lascia perdere la laurea, studiare è inutile”. Falso. Se fai il confronto tra un neolaureato e un diplomato a 24 anni, vince il diplomato, che è sul mercato del lavoro da più tempo. Ma rifai il confronto quando hanno 30 anni: i laureati sono più occupati e guadagnano di più. Certo, ci vorrebbe…”.

- Ecco: che cosa ci vorrebbe?

     “Intanto una classe politica capace di guardare lontano, mentre quella attuale sembra addirittura ignorare ciò che davvero preme al Paese. Anche Usa, Cina, Francia e Gran Bretagna hanno sentito i colpi della crisi e hanno fatto tagli dolorosi. Ma nello stesso tempo hanno investito in scuola, università, ricerca, formazione, cioè hanno puntato sui giovani, che sono appunto il futuro. Nel programma Hotel Patria ospitiamo ragazzi nati nel 2000 e chiediamo loro di immaginare se stessi e l’Italia nel 2050. E’ un gioco ma trasmette con forza la coscienza che il 2050 si costruisce oggi. Il futuro comincia adesso”.

- Le conquiste del passato, anche recente, d’accordo. Ma oggi, cos’è che dà più fiducia?

     “Se uno va un po’ in giro, vede subito che in Italia c’è una straordinaria quantità di impegno e di sforzo da parte di imprenditori, artigiani, associazioni, amministratori locali, semplici cittadini ancora dotati di senso civico. Non siamo affatto un popolo spento. Sono giacimenti di passione a cui basterebbe solo dar voce”.

Fulvio Scaglione
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