Ma Cannes sa ancora sognare

Qualche delusione (Almodovar, Von Trier) ma anche fantasia, emozione, risate e commozione. I grandi affari al margine del Festival.

19/05/2011
I protagonisti di "Il ragazzo con la bicicletta" dei fratelli Dardenne.
I protagonisti di "Il ragazzo con la bicicletta" dei fratelli Dardenne.

Il 64° Festival di Cannes è giunto in dirittura d'arrivo. Dei titoli più gettonati, nella corsa alla Palma d'oro, manca solo This must be the place del nostro Paolo Sorrentino con il divo americano Sean Penn (anche se attesa e curiosità serpeggiano per C'era una volta in Anatolia del turco Nuri Bilge Ceylan). In attesa del gala di chiusura, domenica sera, madrina la deliziosa Mélanie Laurent, il presidente Jilles Jacob e il suo direttore generale Thierry Frémaux possono già fregarsi le mani per un bilancio più che positivo.

     Per il cinema, la crisi sembra essere alle spalle. Erano anni che sulla Croisette non si vedeva così tanta folla (giornalisti, addetti ai lavori, semplici fans alla ricerca di emozioni), che non si sfoggiava così tanto lusso (sempre più importante il peso economico dei nuovi magnati, in specie russi) e soprattutto che non si concludevano tanti affari. Perché, è bene ricordarlo, dietro ai lustrini e ai cerimoniali un po'  pomposi del festival si agita un mercato febbrile: produttori e distributori di tutto il mondo si danno appuntamento al Palais o nei mega hotel sul mare per comprare, vendere, chiudere le coproduzioni del cinema che verrà.

Jean-Paul Belmondo al Festival di Cannes.
Jean-Paul Belmondo al Festival di Cannes.

     Bertolucci e Belmondo, commozione e risate

     A ripensarci, l'ultima rabberciata edizione della Mostra di Venezia fa ancor più tristezza. Tutti, a cominciare dal neoministro Galan, piuttosto che a stucchevoli polemiche tra Mostra e Festival di Roma, dovrebbero pensare a come finanziare il rilancio della manifestazione al Lido (pare, invece, che non ci siano neppure i soldi per tirare su il nuovo Palazzo del cinema).        

     A Cannes, nessuna giornata fiacca né cadute di tensione grazie al susseguirsi di eventi e di ospiti. Tra i momenti più glamour le due  consegne della Palma d'oro alla carriera sia al regista Bernardo Bertolucci che alla star Jean-Paul Belmondo: entrambi in smoking, il primo però in carrozzella e il secondo appoggiato a un bastone, hanno saputo commuovere e far ridere l'immensa platea circondati da tanti grandi dello schermo: da Robert De Niro (presidente della giuria che deciderà il Palmarès) a Claudia Cardinale, da Jean Rochefort a Claude Lelouch. Altre serate che hanno divertito e richiamato i bei nomi dello star-system quelle per la presentazione, fuori concorso, di Midnight in Paris di Woody Allen (con Owen Wilson e Adrien Brody); The beaver di Jody Foster (col redivivo Mel Gibson); del cartoon  Kung-Fu Panda 2 (voci in carne e ossa della splendida Angelina Jolie e del paffuto Jack Black) e soprattutto del mirabolante Pirati dei Caraibi 4 (per il cui lancio sono sbarcati sulla Croisette Johnny Depp e la radiosa Penelope Cruz, fresca mamma).

     

Antonio Bandera e Pedro Almodovar, protagonista e regista del deludente "La piel che habito".
Antonio Bandera e Pedro Almodovar, protagonista e regista del deludente "La piel che habito".

     Von Trier e Almodovar, che delusione

     Di ottimo livello anche la selezione dei titoli in concorso. Tanto da far scivolare via, senza neanche troppo clamore, qualche delusione a sorpresa tra i favoriti. Su tutti, il danese Lars von Trier: il suo barocco e apocalittico Melancholia sarebbe stato archiviato come il tentativo mal riuscito di discettare sulla fine del mondo (malgrado i visionari minuti del prologo e la bella interpretazione di Kirsten Dunst), se il regista non avesse poi attirato l'attenzione dichiarando, nel corso del tradizionale incontro con i giornalisti, la sua avversione verso gli ebrei (per i palestinesi uccisi nei recenti scontri sul confine israeliano) e la simpatia “umana” per Hitler. Parole del tutto fuori luogo costategli la reprimenda del festival e l'oblio per la sua pellicola, passata in secondo piano.       

     Delusione anche per Pedro Almodòvar che, dopo film memorabili, sembra essersi infilato in un vicolo cieco alla ricerca del capolavoro assoluto che, naturalmente, gli sfugge. Meno che mai lo è questo La piel che habito, con un pur eccellente Antonio Banderas: la storia, ora thriller ora horror, di un chirurgo plastico che pare volersi sostituire a Dio nel dispensare la giusta punizione ai malvagi e mantenere in vita la sua ossessione d'amore. Un mélo così eccessivo da sconfinare nel grottesco.       

Delusione a metà per The tree of life  del regista invisibile Terrence Malick (una sorta di J. D. Salinger del grande schermo). La sua quinta pellicola in quarant'anni di carriera, il capolavoro assoluto, la Palma d'oro annunciata ha spaccato il festival: da una parte i critici più cinefili subito pronti a gridare al miracolo, dall'altra chi l'ha giudicato una mezza boiata rivendicando il diritto dello spettatore ad appassionarsi. Resta aperto il giudizio su questa sorta di Amarcord texano, una ballata familiare anni '50 col piccolo Jack sballottato tra un padre autoritario (bravissimo Brad Pitt) e una madre infinitamente dolce (la rivelazione Jessica Chastain). Colpa di un prologo e di un epilogo, in bilico tra filosofia e paternalismo religioso, che appesantiscono la narrazione e difficilmente saranno capiti.       

I fratelli Dardenne.
I fratelli Dardenne.

     La nostra Palma d'oro? A Kaurismaki

     Concorso da buttare, allora? No perché per fortuna esistono anche cineasti come Jean-Pierre e Luc Dardenne, i fratelli belgi premiati già due volte a Cannes con la Palma d'oro che non fanno mai gli schizzinosi e hanno accettato di portare in gara Il ragazzo con la bicicletta. Bellissimo. Come fare del realismo assoluto vera poesia inseguendo con la cinepresa fughe, ribellioni e contorcimenti affettivi di Cyril, Pinocchio in carne e ossa rifiutato dal padre naturale ma poi colmato di amore materno da una perfetta sconosciuta (la fata Cécile de France). In un'epoca in cui i valori vincenti sono l'egoismo e l'individualismo, un messaggio contro corrente.       

     Ulteriore segnale di speranza dal finlandese Aki Kaurismaki, un altro  abituato a filmare teneramente la vita degli ultimi con piccole pennelate di sano pessimismo. Guardando il suo Le Havre si teme che qualcosa debba finire male nella storia del ragazzetto africano arrivato in un container e datosi alla macchia tra il porto e la città: la polizia lo bracca come un pericoloso clandestino per colpa delle solite stupide Tv, ma i poveracci del posto gli danno una mano. A cominciare dal maturo e distinto lustrascarpe, che è un po' il ras del quartiere, e dalla panettiera che sembra nata per distribuire baguette e amore. Ebbene, non finirà male perché a dargli l'aiuto più insperato sarà proprio un poliziotto, anche lui avanti con l'età (l'efficace Jean-Pierre Darroussin), stanco di una società che mette nelle peste chi è innocente. La nostra Palma d'oro è certo sua.       

     Per chi ama il cinema per il cinema, per la sua forza evocativa, la sua capacità di far sognare al di là delle diavolerie tecnologiche, la chicca del festival è stato però l'ultimo film ammesso a sorpresa in gara: The artist del regista parigino Michel Hazanavicius. Nel terzo millennio dominato dalla tecnica digitale in 3D, un film in bianco e nero, girato senza una parola. Eppure questa ascesa e caduta di un divo del muto (perfetto Jean Dujardin), con tanto di riscatto e lieto fine grazie alla bella ragazza che da comparsa diventa star col sonoro, viene raccontata con eleganza e grazia davvero senza pari. Se lo avesse visto, Woody Allen si sarebbe commosso. Omaggio sublime a Hollywood, al cinema, a chi sa ancora sognare davanti al grande schermo. Spettacolo per gli occhi e per il cuore.

Maurizio Turrioni
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