08/12/2011
Come già successo nel 2006 e nel 2010, anche questa nuova
edizione di Don Giovanni, che ha inaugurato la stagione della Scala, ha
ripudiato il Settecento, che pure avvolge di sé la musica mozartiana, a favore
di un’impostazione moderna in cui Don Giovanni appare come il mito di se stesso
con il quale confrontarsi.
C’è però da sottolineare
che Robert Carsen, uno dei registi oggi più affermati, non ha ceduto al gusto
del bizzarro e dell’anomalo ad ogni costo, offrendo dunque una lettura del
tutto credibile, ma solo parzialmente accettata dal pubblico. Due sole vistose
anomalie: l’eliminazione del cimitero e della statua del Commendatore, che qui
compare invece quale spettro nel palco reale, e soprattutto il finale, che vede
il ritorno di un Don Giovanni beffardamente vincitore.
Per il resto tutto
secondo copione, con una regia molto mossa come è nello stile di Carsen,
imperniata sulla prorompente presenza vocale non meno che scenica del Leporello
di Bryn Terfel.
Daniel Barenboim, neo-direttore musicale della Scala, dove
gode le ampie simpatie del pubblico, ha concertato con equilibrio e sobrietà di
risultati, imprimendo però una certa lentezza all’assieme con esiti che talora
possono indurre alla sonnolenza.
Circa la compagnia di canto, particolare
riguardo merita il terzetto femminile, dalle voci ben differenziate.
Opportunamente guidate da Carsen, hanno mostrato un autentico – e giustificato –
slancio erotico verso l’aitante protagonista.
Anna Netrebko, esordiente alla Scala, ha conservato il volto
incantevole, ma vocalmente la sua Donna Anna ha dato più di un dispiacere per
l’incomprensibilità dei recitativi e per la linea di canto non sempre
ineccepibile. Barbara Frittoli, scomparsa da tempo la fresca bellezza del
timbro, ha ripiegato su una vocalità vibrata poco idonea alla purezza
mozartiana. Infine i suoni aciduli e la mediocre tecnica di Anna Prohaska,
vivace scenicamente ma vocalmente assai precaria, hanno fatto rimpiangere la
freschezza pimpante delle Zerline nostrane tipo Noni e Freni.
Qualche riserva spunta anche sul versante maschile. Detto
dell’imperioso Commendatore del bravo Kwangchoul Youn e del travolgente (ma
poco raffinato) Leporello, Peter Mattei ha tutte le qualità (bella figura,
volto simpatico, voce sufficientemente agile ed espressiva) per delineare quel
valido protagonista che in effetti è stato (ma la Serenata del secondo atto va
cantata in modo totalmente diverso...). Neppure il Masetto di Stefan Kocan si
sottrae alla critica circa la modesta qualità timbrica, che invece non tocca
Giuseppe Filianoti, dal quale era logico attendersi una prestazione tale da
riscattare la défaillance del Don Carlo del 2008. Che ci sia stata è
opinabile: il Don Ottavio del tenore calabrese presentava senza dubbio aspetti
positivi legati alla bellezza del timbro, ma stile e tecnica sono apparsi
tutt’altro che impeccabili.
Giorgio Gualerzi