22/10/2010
Una scena del film "Uomini di Dio": i monaci trappisti del monastero di Tibhirine ammoniti dai militari algerini.
In Francia, sono un caso cinematografico. E
ora rischiano di diventarlo anche in Italia.
Dopo aver conquistato il Festival di Cannes
con la loro spiritualità intrisa di calore umano,
sette monaci trappisti sono in testa da un
mese al box office francese (con oltre due milioni
emezzo di spettatori) sbaragliando perfino
la concorrenza della diva Angelina Jolie. O
meglio, a conquistare prima la Croisette e poi
le vette del botteghino sono state le loro storie,
i timori, le parole, il modo assolutamente
naturale eppure sublime con cui hanno dato
testimonianza di fede.
Perché, purtroppo, quei monaci francesi
non ci sono più: li hanno trovati decapitati nel
monastero di Tibhirine, sulle montagne algerine
dell’Atlante. Massacrati, nel maggio 1996,
non si sa bene da chi. Forse dal Gia, il gruppo
islamico armato che allora alimentava la guerra
civile. Forse da un elicottero militare algerino,
che avrebbe sparato scambiando i frati rapiti
per guerriglieri (di conseguenza, decapitazione
e sparizione dei corpi sarebbero state solo
un macabro depistaggio).
Scelta vincente del regista Xavier Beauvois
quella di non descrivere il martirio bensì
di raccontare le settimane precedenti,
quelle in cui i sette monaci decidono di non
abbandonare le attività che da anni svolgono
in aiuto della popolazione musulmana,
ideale ponte tra religioni, malgrado l’incalzare
delle violenze e delle minacce. Uomini di
Dio (è il titolo scelto dalla Lucky Red per la distribuzione
italiana anche se quello originale,
Des Hommes et des Dieux, è assai più profondo
e sfaccettato) esce in questi giorni nei
cinema italiani dopo aver vinto il Grand Prix
a Cannes. Ma non è un film sul fanatismo religioso,
piuttosto il racconto di una scelta sofferta,
difficile, motivata da ciascuno con un
personale percorso di fede.
«Sinceramente, non m’interessa l’inchiesta
tuttora aperta anche se, sulla base delle testimonianze
e della documentazione che ho avuto
modo di raccogliere per la preparazione
del film, propendo per l’errore dei soldati algerini
», spiega Xavier Beauvois, 43 anni, fino
a oggi più attore che regista. «Il cuore del film
è la forza morale di quei monaci, alcuni anziani
e malati, che si trovarono di fronte al dilemma
se partire o restare. In una situazione di
tensione, tra esercito e fondamentalisti ai ferri
corti, tra massacri e minacce, loro rimasero.
Per testimoniare la parola di Dio, che in quel
momento si fece sì per loro carne e sangue. In una società come quella di oggi, in cui nessuno
vuol più rinunciare a nulla, l’idea del sacrificio
è qualcosa che disturba».
Ecco, la forza del messaggio è proprio in
questo voler narrare la vita e non la morte.
Per due ore lo spettatore “vive” dentro il piccolo
monastero sperduto tra i monti dell’Algeria
assieme ai frati benedettini che pregano e
lavorano, fanno il miele e curano le ferite di
chi bussa alla loro porta. Anche se si tratta di
terroristi, perché Dio non fa distinzioni. Una
quotidiana scelta di pace e tolleranza piuttosto
che la partigianeria. Le umili incombenze,
le titubanze, le paure di monaci che senza essere
samurai del Signore restano però saldi
nelle loro convinzioni e nella fede.
«Non c’è sesso, non c’è violenza esibita. I
cristiani non possono che gioire. E i non credenti,
gli agnostici parleranno del senso dato
alla vita da questi uomini in saio», commenta
Libération, giornale laico per eccellenza
del panorama editoriale francese. E aggiunge:
«È come se questa pellicola permettesse a
ognuno di trovare una risposta ai propri dubbi
e alle proprie domande. Proprio come
quando si ascolta il canto gregoriano per ritrovare
un po’ della propria spiritualità».
La decisione di non mostrare la morte dei
frati è venuta in modo naturale. «Per rispetto
ai parenti delle vittime. Le loro vite fatte di dialogo
e compassione sono state la migliore risposta
a qualsiasi violenza», spiega Beauvois.
«Difficile trovare persone capaci di amare così
tanto. Viviamo in una società fondata sulla velocità,
ma credo che la gente sia abbastanza intelligente
da fare uno sforzo per capire».
Beauvois non è credente praticante: «A volte
la Chiesa mi snerva», ammette. «Il priore
Christian snervava a sua volta la gerarchia,
che lo reputava precipitoso perché si accostava
all’islam. Aveva ragione lui. Quei monaci
erano liberi, uomini uguali tra loro e rispetto
ai loro vicini. Oggi, in Francia, siamo sempre
meno liberi, meno uguali, meno fratelli».
Maurizio Turrioni