16/04/2010
Rachel Weisz nel ruolo di Ipazia in "Agorà".
Come trasformare un simbolo di libertà... in una guerra di religione. E' il rischio che sta correndo il lancio del film Agorà di Alejandro Amenabar, che arriverà nelle sale italiane il prossimo 23 aprile, mentre una serie di convegni fra Roma e Milano rievocherà la figura della protagonista, Ipazia. Una figura straordinaria, non c'è che dire, addirittura "profetica" per come anticipò i tempi. Nell'Alessandria d'Egitto a cavallo fra il IV e il V secolo dopo Cristo, si impose come scienziata e filosofa illuminata e grande astronoma e matematica. Alla sua vita pose fine nel 415, in maniera cruenta, una setta di fanatici, i parabolani, guidati dal vescovo Cirillo. A interpretare Ipazia sarà la bella, e premio Oscar, Rachel Weisz. E fin qui, tutto bene.
Il film è ben fatto: una grande narrazione storica, un kolossal preparato da un'accurata ricostruzione dell'epoca, che non trascura nemmeno i dettagli. D'altra parte, la firma di Alejandro Amenabar, è garanzia di qualità. Molti ricorderanno i suoi precedenti film, come Il mare dentro e The Others. E anche qui, tutto bene.
Che cosa non va, allora? Il tono che hanno assunto i dibattiti, ancora prima che Agorà approdasse nelle sale. A molti non è parso vero prendere a pretesto il film e la vicenda di Ipazia per ribadire l'incompatibilità fra scienza e fede, fra libera ricerca e principi religiosi. Laicisti e scientisti hanno subito alzato la voce. Il fatto che il film abbia subito un ritardo nella distribuzione in Italia, è bastato per far gridare allo scandalo. Ora, è difficile dire se il film di Amenabar sia, e in quale misura, responsabile di queste polemiche. Certo è però che ignorare secoli di storia e trasferire una vicenda del V secolo dopo Cristo a oggi, come se nel frattempo nulla fosse accaduto, si configura come una forzata operazione ideologica. Si parli di Ipazia. Si veda il film. Si dìibatta su tutto. Ma, per cortesia, senza fare troppa confusione. Altrimenti rischiamo di trasformare una figura di libertà come Ipazia in un campo di battaglia.
Paolo Perazzolo