10/06/2010
Il regista Michelangelo Frammartino, autore anche di soggetto e sceneggiatura di "Le quattro volte".
Un miracolo. È avvenuto a Cannes, pochi giorni fa, attorno a Le quattro volte, piccola quanto inusuale pellicola accompagnata sulla Croisette dal regista Michelangelo Frammartino, invitato nella prestigiosa sezione parallela della Quinzaine des Réalisateurs. Senza roboanti campagne pubblicitarie. Senza attori di grido. Senza sesso né sangue né effetti speciali. Quasi senza parole. Eppure questo film, che sollecita l’uomo a recuperare il suo rapporto ancestrale con la natura intesa come Creato, ha conquistato critici e spettatori.
«L’azzardo di un cinema nuovo», è la sorpresa valutazione di un addetto ai lavori. «Un film di una bellezza sfolgorante... L’arrivo del secondo Michelangelo del cinema italiano», il commento entusiasta dell’illustre rivista britannica Screen Magazine, con riferimento ai fasti passati di Antonioni. Complimenti non da poco per un regista come Frammartino che, fino a ieri, aveva seguito un percorso professionale sobrio e schivo da ogni forma di protagonismo legato alla cinepresa, interessato piuttosto alla relazione tra spazi concreti e immagine (sia essa fotografica, cinematografica o video).
Diplomato in regia alla Civica Scuola del Cinema di Milano, Frammartino si è dedicato all’insegnamento nelle scuole medie e alla realizzazione di cortometraggi, scenografie, videoclip, videoinstallazioni interattive. Poi il primo lungometraggio, Il dono, premiato al Festival di Annecy nel 2003. Ora ci riprova con Le quattro volte che, dopo il successo a Cannes e uno speciale Nastro d’Argento assegnatogli dai giornalisti cinematografici italiani, esce nelle sale distribuito da Cinecittà Luce.
«Il mio è un film fatto a togliere. Comincia fissandosi sull’uomo, poi via via sposta l’attenzione su ciò che gli sta intorno e che, normalmente, è poco più che uno sfondo», spiega Frammartino, 42 anni, nato a Milano ma mai dimentico delle radici calabresi della sua famiglia. «Ovviamente, in questa perdita progressiva del protagonista si vorrebbe che fosse contenuta anche la scoperta della pari dignità fra l’umano e gli altri regni».
A che cosa si riferisce il titolo del film?
«Viene da una frase attribuita a Pitagora, secondo cui in noi ci sono quattro vite successive, incastrate una dentro l’altra. L’uomo è un minerale perché dentro di sé ha lo scheletro, formato da sali e sostanze minerali. È anche un vegetale perché come le piante si nutre, respira, ha un sistema circolatorio la cui linfa è il sangue, si riproduce. Ma l’uomo è anche un animale in quanto dotato di motilità e di conoscenza del mondo esterno attraverso i cinque sensi, completata dalla memoria. Infine, è un essere razionale in quanto possiede volontà e ragione. Dobbiamo quindi conoscerci quattro volte». catturare da Le quattro volte, le cui immagini seguono il ciclo vitale di un uomo, di un animale, di un vegetale e di un minerale.
In un paese calabrese abbarbicato sui monti che guardano in lontananza il mar Ionio, un posto dove il tempo pare fermo, vive gli ultimi giorni un pastore. Malato, crede di trovare la medicina giusta nella polvere raccolta dal pavimento della chiesa, che beve sciolta nell’acqua ogni sera. Testimoni dell’ultimo respiro sono le capre: belati, smarrimento senza più la guida di un bastone. L’esistenza, però, continua: un nuovo capretto nasce. I disagi, l’esplosione di vita, la crescita, il gioco. È alla prima uscita che perde contatto dal gregge: timoroso, si smarrisce nella fitta vegetazione finché, esausto, si accovaccia sotto un maestoso abete. La brezza fa oscillare il grande albero, in maniera diversa a seconda del succedersi delle stagioni. Poi un rumore meccanico: l’abete bianco cade al suolo, abbattuto dall’uomo. Il suo legno verrà trasformato in minerale attraverso il lavoro antichissimo dei carbonai locali. Detto così sembra nulla, ma è un incanto. «Per me, è un film di fantascienza senza effetti speciali», osserva Frammartino, «che accompagna lo spettatore in un mondo sconosciuto e magico. Alla scoperta del segreto di quattro vite misteriosamente intrecciate».
E qual è questo segreto?
«L’anima».
Visto in religioso silenzio sulla Croisette e poi applaudito, il suo film non risulterà ostico per lo spettatore medio, abituato ad altri ritmi e a sceneggiature che parlano troppo?
«Ma io mentre preparavo il film, per le cui riprese mi ci sono voluti cinque anni, ho pensato in modo ossessivo al pubblico. Tanto lo considero che chiedo allo spettatore di responsabilizzarsi, di compiere uno sforzo e di trasformarsi da oggetto passivo in soggetto attivo. È lo spettatore, infatti, che deve assumersi la responsabilità di trovare il finale da me lasciato deliberatamente aperto». – Perché dice che il suo è un film politico? «Perché è contro i linguaggi convenzionali proposti dalla Tv. Il nostro Governo è assai legato alla Tv, ovvio che abbia problemi con il cinema. Godard dice che per vedere un film bisogna alzare la testa, per la Tv abbassarla».
Maurizio Turrioni