05/09/2012
Una delle 318 lettere scritte da Benito Mussolini a Claretta Petacci fra il 1943 e il 1945. Il Duce si rivolgeva all'amata chiamandola “Piccola cara”.
Un «sognatore naufragato», un
«buffone», un «ridicolo personaggio», un «fantoccio grottesco», fino al
definitivo «cadavere vivente». Era questo che Benito Mussolini pensava di sé
nelle 318 lettere scritte all’amante Claretta Petacci durante i 600 giorni della
Repubblica di Salò. Pagine ingiallite custodite per oltre 60 anni nei
sotterranei dell’Archivio centrale dello Stato e ora rese pubbliche dopo un
lunghissimo iter giudiziario con gli eredi Petacci. Un carteggio che approda
anche in Tv con il documentario «Mussolini. Il cadavere vivente» di Giuseppe Giannotti, Davide Savelli e Clemente Volpini, in onda
mercoledì 5 settembre alle 21.10 su Rai 3, con Michele Placido e Maya Sansa che
daranno voce ai due protagonisti.
I documenti sono importanti per due ragioni.
Che Mussolini, dopo essere stato liberato dai tedeschi dalla sua prigionia del
Gran Sasso si considerasse un uomo stanco, malato e ormai sconfitto, è cosa
risaputa. Perfino durante quei tragici 600 giorni e pure tra i fascisti non
accecati dal fanatismo, si sapeva che la Rsi era solo un Stato fantoccio nelle
mani dei nazisti e che il Duce, di fatto, era un loro prigioniero, tanto che il
21 giugno del 1944 il direttore della “Stampa” di Torino Concetto Pettinato si
permise di scrivere un editoriale dall’eloquente titolo: “Se ci sei, batti un
colpo”.
Un altro estratto di una lettera scritta da Mussolini a Claretta Petacci. Da notare la firma finale: “Ben”
Ma un conto è la lucida
consapevolezza del proprio fallimento e un altro è la totale disperazione che
emerge da queste lettere. L’uomo che per un ventennio aveva guidato con pugno
di ferro una nazione, suscitando l’ammirazione perfino di Churchill, si ritrova
ad essere solo un servile burocrate e desolato scrive all’amante: «Debbo
occuparmi delle mense, dei buoni di prelievo e dove e quando e quanto e da chi
e come. Un’infinita noia mi sopraffà. Pur così vuoto e detestandomi ti
abbraccio. Ben». E ancora: «Vivo solo. Non parlo con nessuno. Mi sento
circondato. Non mi si vuole dare la possibilità di muovermi. Quando mi muovo,
l’apparato italo-germanico di protezione è imponente».
Solo l’odio per i
traditori del Gran consiglio del fascismo, per il re Vittorio Emanuele III e
per Badoglio, sembrano scuoterlo dallo scoramento, senza tuttavia essere mai
lontanamente sfiorato da un’ombra di autocritica per aver trascinato lui
l’Italia nella catastrofe della guerra: «Ma prima di parlare di noi, parlo
della nostra cara, grande, infelicissima Italia, due volte massacrata e tradita
il 25 luglio e l’8 settembre. Quale infamia nei capi, re e Badoglio, quale
incoscienza nel popolo, quanti tradimenti e viltà». L’unica vera consolazione è
la fedeltà di Claretta: «Tu sei e rimani il mio amore immutabile. Il destino ti
ha voluto accanto a me. Ci rimarrai a qualunque costo anche nel futuro». Per
poi aggiungere, con amara ironia: «Ciò è storico, anche se la parola è grossa».
Claretta Petacci. Conobbe Mussolini nel 1932, appena ventenne.
Ed ecco il secondo grande motivo di interesse di questo carteggio: Claretta Petacci. La sua figura è stata finora confinata al ruolo di «amante» devota e passiva del Duce. Le risposte alle lettere tratteggiano invece una donna risoluta, che fa di tutto per pungolare il suo amato “Ben” a tornare a esser il Duce che aveva conosciuto appena ventenne. Prima di un incontro con Hitler, si spinge addirittura a dargli dei consigli su cosa dire quando si troverà di fronte il dittatore. «Tu devi sostenere il tuo diritto assoluto di decidere senza sindacare delle questioni interne italiane, nonché degli uomini che tu ritieni più adatti alla tua grandiosa e faticosa opera di ricostruzione». Ma è tutto inutile. Il 29 settembre 1944 gli scrive: «Caro bellissimo, la tua debolezza di fronte a uomini a te inferiori mi brucia e mi umilia. Ricordati, Ben, tu sei il Duce, il Capo, anche se di pochi, anche su di un metro quadrato di territorio, sei e sarai sempre Mussolini e per te si vive e si muore!».
C’è un unico sussulto, dopo l’ultimo discorso del dittatore al Teatro Lirico di Milano del 16 dicembre 1944: «Finalmente! Tu non credevi più in te stesso e il popolo, pur credendo in te, non ti sentiva. Ora ti sei ritrovato in te e nel tuo popolo». Ma sono solo illusioni. Tutto precipita e nell’ultima lettera che Mussolini invia a Claretta, datata 18 aprile 1945, non si fa nessun accenno alla tragedia incombente, ma solo alla gelosia dell’amata: «Vedo che sei sempre bene informata. Ieri sera ho ricevuto la signorina Pia Piazzi e naturalmente sono accadute tremende cose. Non è accaduto assolutamente niente…». Il vecchio dittatore tenta pateticamente di esorcizzare la fine indossando per l’ultima volta i panni del Don Giovanni, dell’uomo virile e risoluto che per vent’anni aveva ammaliato una nazione intera. Solo undici giorni dopo i corpi dei due amanti saranno uniti nello scempio di piazzale Loreto.
Eugenio Arcidiacono