10/07/2012
Laura Marinoni (Milano, 1961) ha vinto il Premio Ubu per "Lolita", due volte il Duse con la pirandelliana "Trilogia del teatro nel teatro" e "Le lacrime amare di Petra von Kant", il Premio Anct per "Passio laetitiae et felicitatis".
Per capire come nasca un personaggio
– per il cinema, il teatro o la tivù, non
cambia – è affascinante ascoltare quello
che ci racconta Laura Marinoni, fresca
vincitrice del Premio Hystrio all’interpretazione,
uno dei massimi riconoscimenti della
scena: «Mi diverto a immaginarmi fisicamente
la persona che dovrò incarnare, modifico il
mio modo di osservare la realtà in funzione di
quel ruolo», dice. «Il vero lavoro, però, è conoscere
a fondo l’autore: in qualunque personaggio,
c’è sempre il cuore dell’autore».
E lo spiega facendo riferimento a Petra
von Kant, interpretazione che le valse il Premio
Duse nel 2007: «Si pensa che Rainer Werner
Fassbinder sia un trasgressivo, invece ho
scoperto in lui una tenerezza ai limiti della
commozione: donna ricca, bella e arrogante, Petra si toglie tutte le maschere, fino a restare
solo anima, solo... pietra».
Il ragionamento diventa
ancora più stringente se applicato all’ultimo
personaggio teatrale della Marinoni, Blanche
di Un tram che si chiama desiderio, grande
successo di critica e pubblico: «Mi vengono i brividi
a pensare a quanto di Tennessee Williams
c’è in lei; una trasparenza totale, che
mette l’attore e lo spettatore nella condizione
di non avere pregiudizi e di assumersi le
proprie responsabilità. Blanche è delicata e perciò
fragile e perciò sincera e perciò pura. E perciò
destinata a soccombere, in un mondo in cui
prevalgono la finzione e la menzogna».
L’onestà dell’autore non è senza ripercussioni
per l’interprete: «Se lui è stato così coraggioso
nello svelarsi – ho pensato – io lo devo essere
altrettanto».
Laura Marinoni in "Un tram che si chiama desiderio".
Per questo ruolo Laura ha guardato
diversi film, trovando ispirazione soprattutto
nelle Onde del destino: «Ho fatto lo stesso
lavoro di Emily Watson: eliminare cliché e atteggiamenti
a effetto per essere vera. L’attore
deve essere crudele con sé stesso, conoscersi
bene... Non giudico mai i miei personaggi,
mi sforzo di coglierne luci e ombre, perché
nessuno di noi ha un colore solo. La differenza
fra caratterizzazione e interpretazione sta
tutta qui. Imitare è facile, altra questione è avere
capacità di interpretazione».
E per dimostrarlo chiama in causa niente di
meno che Marilyn Monroe: «Allo Stabile di Torino,
dove insegno, ho utilizzato il racconto
che ne ha fatto Truman Capote, in cui emerge
chiaramente che lei seduceva in forza del contrasto
fra un’anima candida e un corpo prorompente.
Anche per capire una donna del genere,
apparentemente tutta costruita sull’esteriorità,
bisogna partire dal di dentro».
Se così impegnativo è il lavoro dell’attore,
non sorprende che molto, di ogni personaggio,
gli resti addosso. «Ogni interpretazione
affina la sensibilità, conduce un passo oltre,
e tutto, ne sono certa, arriva allo spettatore.
Al cinema si può restare passivi, a teatro
no: attore e spettatore ne escono trasformati.
E poi l’attore deve saper vivere, ricordare
che non c’è solo la scena, e che anche il
suo valore artistico è correlato alla quantità e
qualità della sua esperienza di vita».
In carriera Laura ha lavorato con i più grandi
registi. «Il mio primo maestro è stato Patroni
Griffi: mi ha “vista” prima che io stessa mi
“vedessi”. Giorgio Albertazzi mi ha rivelato
un’incredibile capacità di cambiare ruolo,
una duttilità sconfinata. Giorgio Strehler
l’ho conosciuto negli ultimi anni della sua attività:
era innamorato della vita, prima che del
teatro. Sono felice di aver incontrato Luca
Ronconi quand’ero già formata: trovarsi all’interno
di un suo spettacolo può stritolare, se si
è ancora inesperti, o esaltare, se non si ha soggezione.
E nell’ultima fase della mia carriera
sto lavorando con Antonio Latella (vincitore
del Premio Hystrio alla regia, ndr), un coetaneo
per il quale sento fratellanza».
Presto Laura sarà di nuovo al cinema con
Eva dopo Eva, titolo provvisorio di un film di
Sophie Chiarello, con, fra gli altri, Angela Finocchiaro
ed Elio delle storie tese: «Finalmente
un ruolo brillante, non drammatico (purtroppo
si tende a rinchiudere gli attori in schemi fissi).
In una società che punta sulla bellezza da
cartolina, racconta con ironia la storia di alcune
commesse cinquantenni alle prese con l’invecchiamento,
chiamate a reinventarsi». Proprio
quello che fa l’attore in ogni spettacolo, e
ciascuno di noi a ogni tornante della vita.
Paolo Perazzolo