25/07/2011
Ermanno Olmi.
È bello e fa bene ritrovarsi con Ermanno Olmi. Guardare il suo viso lavorato dal tempo, sereno e un po’ birbante, per quell’ironia che alimenta la saggezza, negli occhi la luce dei suoi film che ci hanno regalato un pezzo di terra, mescolata a un pezzo di cielo. Che ci hanno raccontato la storia degli uomini e del mondo con un profumo d’eternità e sapore di profezia.
Ci conosciamo da quarant’anni. Siamo rimasti legati da un momento magico della nostra vita. Negli anni Settanta, a ridosso de’ L’albero degli zoccoli, abbiamo vissuto insieme con entusiasmo un sogno di bellezza e di poesia, di democrazia e di libertà. Eravamo un gruppo di amici, fra cui scrittori come Mario Pomilio e Gianni Santucci, Gino Montesanto e Italo Alighiero Chiusano, Raffaele Crovi, che credevano in una cultura d’ispirazione cristiana che aiutasse a vivere in giustizia e verità, con moralità civile ed etica individuale.
Lo abbiamo ricordato con commozione, incontrandoci alla vigilia dei suoi ottant’anni, compiuti il 24 luglio, parlando delle cose che oggi per lui contano, di un presente «che non è mai un tempo isolato, perché comprende il passato e ciò che speri, o temi, del futuro», come mi ha detto.
– Ma cos’è per te il futuro, Ermanno?
«È una pagina bianca che vorrei avere ogni giorno a disposizione
per non scriverci nulla, per un bisogno di totale libertà. Se vi
tracciassi anche solo un segno, sarei condizionato dalle conoscenze che
ho accumulato nella vita, mentre voglio essere libero come il bambino,
quando nella prima infanzia non ha consapevolezza della realtà che
avverte solo con l’olfatto. Come Adamo, prima che incominciasse a dare
un nome alle cose. Un bicchiere, ad esempio, è un oggetto di cui tutti
conosciamo la qualità e l’entità, ma prima ancora quel bicchiere è la
nostra galassia, dentro ci vedo l’universo intero. È un bel gioco che
faccio ogni giorno. Aver voglia di giocare a ottant’anni è già un
bell’augurio».
– I tuoi ottant’anni ci regaleranno un nuovo film, Il villaggio di
cartone che sarà presentato al Festival di Venezia, fuori concorso,
come tu hai categoricamente voluto.
«Per non creare aspettative sbagliate l’ho definito un “apologo”.
Del cinema non m’importa più niente. L’ho usato soltanto perché mi
consentiva di dire quello che m’interessava. Ho fatto un film, prendendo
le distanze dal cinema. Ero a letto, per una caduta che mi ha
immobilizzato per settanta giorni. Mi sono fatto portare un computer e,
non potendo camminare, un po’ con la fantasia, un po’ con i dati che
raccoglievo, ho fatto camminare verso la mia stanza persone, situazioni,
episodi, gli stessi protagonisti. Piano piano, è nata dentro di me una
drammaturgia non di verosimiglianza con il reale, ma un apologo».
– Che cosa racconta?
«Tutto parte dal conto aperto che ho da sempre, da un lato, con
Cristo, di cui sento il fiato sul collo, mi sento più che un cristiano,
un aspirante cristiano, perché non sono all’altezza di esserlo, anche se
mi piacerebbe molto. Dall’altro lato con la Chiesa, l’istituzione
cattolica che è il terreno della mia formazione. Un anziano parroco, già
oltre l’età della pensione, a cui chiudono la chiesa, perché “fuori
servizio”, mancano i fedeli, in poche ore sprofonda in una terribile
angoscia. Svuotano la chiesa, portano via tutti gli oggetti preziosi,
rimangono poche panche abbandonate e vuote; il prete si ritrova
spogliato di tutta una vita, delle ragioni stesse della sua esistenza.
Pensa di essere uno sconfitto. Invece, proprio da quella spogliazione,
cambia tutto, capisce che la vera Chiesa è quella lì. Inizia un nuovo
percorso, arrivano nuovi fedeli, tutti di un colore diverso di pelle».
– Una “favola morale”, quanto mai attuale, ha il sapore di una
moderna parabola evangelica...
«Racconta la mia scoperta di un’umanità, rimasta integra nei suoi
valori, che vive l’esistenza come noi non siamo più capaci di viverla,
ci riporta alle origini dell’uomo. Sarà l’Africa, coloro che vengono da
lontano a salvarci. Ma ho anche voluto testimoniare come il dialogo tra
religioni che si liberano dal gravame delle Chiese, quando sono rigide
istituzioni che separano, rende possibile non solo incontrarsi, ma
suscita solidarietà condivise».
– Nel bel libro intervista di Daniela Padoan tu dici: "Sono
costantemente in ricerca della fede. Ogni tanto afferro bagliori in cui
provo il brivido di una fede totale, un momento dopo mi ritrovo in
quello che è un continuo rimuginare, un continuo portare avanti i miei
passi"...
«La mia ossessione è il Cristo uomo, quello che vedo nei volti del
mio prossimo. Tutta l’umanità che muore di sofferenza, tutto, è pari
all’uccisione di Cristo, dalla flagellazione alla morte. Lui è in coloro
che percuotiamo, insultiamo, emarginiamo. Sono abbarbicato a questo
Cristo che ha sofferto da uomo e che, quando dice: “Padre perché mi hai
abbandonato?” è come dicesse: “Verità, vita, perché mi avete
abbandonato?”. È la mia luminosa stella polare nell’universalità di una
testimonianza che va oltre i sistemi galattici. Dopo Cristo il mondo è
cambiato, e non perché siamo diventati più buoni, ma perché abbiamo
capito di più. Il diventare più buoni sta nella libertà di ciascuno di
noi, ma quando abbiamo capito di più, la nostra responsabilità è più
grande».
– Una responsabilità che oggi poco si avverte. Domina l’indifferenza,
non sappiamo più indignarci e vergognarci per quanto d’inaccettabile
accade su tutti i versanti della vita pubblica e privata.
«Forse l’indifferenza è un po’ un’autodifesa. Abbiamo constatato
che siamo continuamente traditi dai prodotti che compriamo, dai modelli
di vita che c’impongono. Per difendermi non ho che l’indifferenza o
l’indignazione. Ma l’indignazione dovrebbe provocare la ribellione.
Cristo ha avuto la forza di ribellarsi al tempio, dove si vendevano “le
quotazioni in borsa”. Noi, quando avremo la forza di ribellarci a quel
tempio fasullo che è la nostra società attuale, dove la felicità pare
dipendere dai soldi? Nel momento in cui ci ribellassimo, non in tre
giorni, ma in tre secondi, potremmo costruire un nuovo tempio. Ci
sarebbe un’esplosione di luminosa felicità che inonderebbe l’aria di un
profumo mai prima avvertito».
– So che ti stanno molto a cuore i giovani che oggi vivono tempi
davvero difficili per la precarietà della loro situazione e non solo
lavorativa.
«I ragazzi che abbiamo attorno soffrono di un dolore per il quale
non hanno parole, chiusi in una sorta di inesistenza. Ma hanno una
moneta che non devono assolutamente rinunciare a spendere per il valore
che ha, quello di una giovinezza che deve riscuotere il diritto
inalienabile di creare le condizioni di un futuro per vivere degnamente.
Devono credere nella possibilità di cambiare le cose nel mondo, ma
anche la loro vita individuale in meglio. Se s’impegnano in questo,
saranno un esempio per chi non ha inizialmente lo stesso slancio e la
stessa carica di ribellione».
– E agli anziani di cui hai dichiarato con tenerezza di sentirti
parte, che cosa dici?
«Dobbiamo imparare a tacere e aspettare d’essere interrogati.
Quello che possiamo fare di meritevole, è dare risposte oneste, ma solo
quando siamo interrogati. E prepararci al commiato finale, dicendo come
Giovanni delle Bande Nere, nel Mestiere delle armi, poco prima di
morire: “Vogliatemi bene, quando sarò morto”. Se io guardo la morte con
questa richiesta d’amore, significa che quest’amore è la mia garanzia
di sopravvivenza. Se ho lasciato una buona memoria nelle persone a cui
ho voluto bene, tutti costoro mi vorranno bene e io avrò dato un
significato alla mia vita».
– Due persone per te hanno contato molto, tua nonna, che ti ha
allevato, e Fellini che ti aveva artisticamente adottato.
«Mia nonna che portava le calze di lana nera, fatte a mano con
quattro ferri, è stata per me maestra di vita, un grembo materno al
quale sono legato dall’odore dell’aglio, che serviva per condire tutto, e
dal suono della sua voce che aveva due momenti diversi, ma simili, le
cantilene e il rosario, sconvolto in un latino popolaresco. Più che
parole, una musica dolcissima che mi ha accompagnato. Fellini, dopo
avere visto il mio film Il tempo si è fermato, del 1959, mi
disse: “Un film così io non sarei capace di farlo, perché la mia natura è
fare altre cose, però, da questo momento, noi due siamo come fratelli”.
Rimasi tramortito dall’emozione e dalla felicità. Negli schizzi dove
illustrava i suoi sogni, aveva disegnato un bambino che disinnescava un
pesce bomba che avrebbe distrutto l’umanità. Vi scrisse sotto una
didascalia: “Ermanno farà un bel film”. Ma non mi disse mai niente, l’ho
scoperto solo dopo la sua morte. Era come mi chiamasse a saldare un
debito d’amicizia molto bello. Quel film ora non sono in condizioni di
farlo. Sono arrivato tardi».
Mariapia Bonanate