07/06/2012
Una scena corale di "Luisa Miller" di Verdi in programma alla Scala.
Il 6 giugno l’esordio operistico alla Scala di Gianandrea Noseda ha coinciso con il felice ritorno su quelle scene di Luisa Miller, i cui trascorsi scaligeri non erano certo dei più incoraggianti. Gravava infatti su questa edizione dell’opera verdiana l’ombra della rappresentazione del 2 maggio 1989, caratterizzata soprattutto da un primo atto ostaggio di un loggione particolarmente turbolento.
Tutt’altro clima questa volta, fin dall’arrivo sul podio di Noseda, salutato da calorosi applausi di benvenuto, subito ribaditi sia dopo la serrata esecuzione dell’ouverture, una delle più incisive composte da Verdi, sia alla fine dello spettacolo. La riuscita complessiva molto deve infatti all’impegno e allo sforzo equilibratore compiuto dal direttore milanese, che ha pienamente riscattato in chiave verdiana le ombre suscitate da precedenti esecuzioni.
Luisa Miller è un’opera che risponde ai canoni di una vocalità espansa e anticipa soluzioni adottate poi nella cosiddetta “trilogia popolare”.
Leo Nucci in scena con Elena Mosuc.
Autentico mattatore della serata è stato ancora una volta l’amatissimo
Leo Nucci, sulla cui organizzazione vocale le settanta primavere non
sembrano pesare più di tanto. L’aria del primo atto ne è stata
un’entusiasmante dimostrazione. Non si può affermare che Elena Mosuc
vocalmente sia la Luisa ideale, ma supplisce con una sensibilità e un
coinvolgimento scenico di tale verità da offrire un’interpretazione nel
complesso assai convincente. Marcelo Álvarez invece avrebbe i mezzi per
delineare un Rodolfo credibile a tutto tondo, ma il suo canto, generoso
all’eccesso, appare spesso faticoso, con risultati che solo a tratti
colgono l’obiettivo prefisso. Dei due bassi, Vitalij Kowaljow (il conte
di Walter) e Kwang Chul Youn (Wurm), entrambi scenicamente molto
efficaci, il primo denuncia carenze nel registro grave, mentre il
coreano coglie perfettamente i risvolti demoniaci del personaggio. Molto
pertinente infine la partecipazione di Daniela Barcellona, il cui fasto
vocale, opportunamente integrato da una presenza fisica particolarmente
accattivante, dà finalmente il giusto peso richiesto da Verdi per il
personaggio della Duchessa, spesso però vanificato da cantanti più o
meno insufficienti.
Mario Martone ha firmato una regia sobria e funzionale. Priva di
suggestioni naturalistiche, se si eccettua il bosco stilizzato che
domina lo svolgersi dell’intera vicenda, la scena, percorsa da persone
rigorosamente in abiti moderni, coinvolge un particolare contesto
sociale che condiziona il dramma intimo dei vari personaggi fino al
tragico epilogo.
Giorgio Gualerzi