21/03/2011
La scena sulla strage di Capaci dei "Vespri siciliani" rappresentati al Regio di Torino. La regia di Davide Livermore ha destato perplessità.
Non proprio dimenticare Verdi, se uno pensa ai “suoi” Vespri siciliani, ma piuttosto guardarlo tramite la lettura particolare che ne ha fatto Davide Livermore, regista dello spettacolo andato in scena al Teatro Regio di Torino nel 150° della proclamazione del Regno d’Italia. Preso atto della consuetudine di stravolgere ogni canone storico e ambientale, la tesi di Livermore si fonda su «una riflessione, severa e disincantata, di Verdi sul suo tempo e sul nostro essere italiani».
Con un discutibile salto generazionale e culturale, che esigerebbe però più chiarezza di propositi e di esposizione, ci troviamo nella Sicilia di oggi, dove a metà del secondo atto si avverte lo stridente contrasto fra la tarantella festaiola e i lugubri relitti della strage di Capaci. Chiarissima, dal principio alla fine dello spettacolo, è invece l’insistente presenza televisiva, a testimoniare l’odierna schiacciante supremazia mediatica.
Detto tutto ciò, non era però agevole, anzi quasi impossibile, districarsi fra il potere visibile dei “cattivi”, quello più o meno occulto della mafia e l’aspirazione alla libertà dei popolani asserviti. Alla fine dell’opera costoro si tolgono una maschera dal volto per lasciare il passo non già al massacro dei presunti francesi, ma a un Parlamento che esprime la sovranità del popolo.
Che tutti gli spettatori abbiano realmente compreso il significato del messaggio e, soprattutto, la sua esemplificazione registica è difficile da credere, come del resto si è arguito dalla sia pur moderata contestazione finale. Tutti concordi, invece, nel riconoscere il valore musicale dello spettacolo, cui hanno più o meno validamente contribuito il vibrante concertatore e direttore Gianandrea Noseda, il coro istruito da Claudio Fenoglio, e i quattro principali solisti: Sonda Radvanovsky, Gregory Kunde, Franco Vassallo, Ildar Abrdazakov.
Giorgio Gualerzi