Sorrentino fa di nuovo centro

"This must be the place", ironico, struggente e un po'dark, ha confermato a Cannes il talento del regista italiano. Uno straordinario Sean Penn.

21/05/2011
Un quasi irriconoscibile Sean Penna (Cheyenne) durante le riprese di "This must be the place".
Un quasi irriconoscibile Sean Penna (Cheyenne) durante le riprese di "This must be the place".

Paolo Sorrentino ha fatto centro ancora una volta. Il fatto che il suo nuovo film, This must be the place (letteralmente “Questo deve essere il posto”, da una canzone del gruppo Talking Heads, nei cinema italiani soltanto il prossimo autunno), fosse così tanto atteso poteva essere un boomerang. Perché il Festival di Cannes,  dopo averne rivelato la bravura prima selezionando Le conseguenze dell'amore e L'amico di famiglia quindi premiando Il divo (Prix du Jury nel 2008), a questo punto poteva consacrarlo definitivamente oppure ridimensionarlo. E poi perché il fatto che il divo Sean Penn avesse accettato di girare con lui un film ambientato tra l'Irlanda e gli Stati Uniti, aveva alzato sia le aspettative sia una certa invidia.       

     Il regista napoletano, però, non si è fatto intimorire firmando una pellicola che rifugge gli stereotipi di un certo cinema italiano e cattura lo spettatore per l'originalità della storia, la vivacità delle scelte musicali e il personalissimo taglio delle immagini. This must be the place è un po' ballata malinconica, un po' thriller e un po' viaggio on the road. Protagonista un buffo Sean Penn nei panni alquanto dark di Cheyenne, cinquantenne ex rockstar che si trascina nella vita senza uno scopo apparente fin quando la morte negli  Stati Uniti del padre, col quale aveva interrotto i rapporti da trent'anni, non lo spinge a ripensare al passato e a cercare di onorare la memoria del genitore portando a termine la caccia a cui si era dedicato da vivo: rintracciare l''ufficiale nazista che lo aveva umiliato ad Auschwitz.       

     Il bello è che più Cheyenne si addentra nell'America profonda e più la sua apparente stranezza (si trucca col rossetto e lo smalto per le unghie, si cotona i lunghi capelli neri, si muove con perenne afasia fasciato da un giubbotto di pelle tutto borchie) scompare agli occhi dello spettatore di fronte alla stranezza delle persone cosiddette “normali” che  incontra. E poi, questo maledetto nazista sarà ancora vivo? E se così fosse, una volta trovato, avrà lui il coraggio di ammazzarlo? O ci vuole più coraggio a perdonare?

        Iniziato con una punta di ridicolo, il viaggio finisce così per inchiodare lo spettatore alla poltrona anche grazie alla forza suadente di una colonna sonora che si avvale di pezzi storici (a cominciare da quello cantato da David Byrne in una esecuzione dal vivo, coreografata con geniale gusto visivo da Sorrentino, che sola vale il prezzo del biglietto).

        “Ogni film deve essere una caccia smodata all'ignoto e al mistero”, ha spiegato Sorrentino ai giornalisti di tutto il mondo. “Non tanto per trovare una risposta quanto per continuare a tenere viva la domanda. Una storia diventa interessante quando nasce da una combinazione di elementi sufficientemente pericolosa. Perché solo dentro il pericolo del fallimento, credo che il racconto possa autenticamente vibrare. E io spero di aver scansato il fallimento”.       

     Il caldo applauso dei giornalisti all'anteprima mattutina per la stampa e ancor più il lungo battimani del pubblico della Croisette alla proiezione di gala hanno confermato a Sorrentino di aver vinto la scommessa. Il Palmarès, certo, è tutta un'altra storia. Anche se per un cinefilo come Robert De Niro sarà difficile rimanere insensibile a un grande film.

Maurizio Turrioni
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