18/11/2010
L'elegante tratto di "L'illusionista" di Sylvain Chomet.
Due storie che si intrecciano. Nella realtà e
nella finzione. La prima ha inizio una decina
d’anni fa, quando Sylvain Chomet stava
portando gli ultimi ritocchi ad Appuntamento
a Belleville, film d’animazione caratterizzato
da una straordinaria vena poetica. In una scena
le vecchiette tifose del ciclista Champion sono
a letto a guardare la Tv. «Ci vorrebbe qualcosa
in sintonia con il Tour de France», pensò
Chomet, e subito gli venne in mente il postino
in bicicletta di Giorno di festa di Jacques Tati.
Si mise allora in contatto con la figlia del mimo,
Sophie Tatischeff (vero cognome dell’autore
di Mon oncle e Playtime), che non solo gli
concesse l’autorizzazione, ma gli fornì un vecchio
progetto del padre, completato nel 1959 e
sempre rinviato.
Tati era morto nel 1982 e qualcuno
era tornato a interessarsi del progetto,
ma la figlia riteneva che nessun attore avrebbe
potuto calarsi nei panni di Monsieur Hulot e
sostituire la figura del padre sullo schermo.
Chi meglio di un mago dell’animazione, con
disegni dal tocco incantato e surreale, avrebbe
potuto far rivivere le sembianze del padre, il
suo stralunato personaggio, il suo stesso stile?
La seconda storia è quella raccontata nel
progetto di Jacques Tati, intitolato L’illusionista,
dove un anziano prestigiatore è costretto
a peregrinare di città in città alla ricerca di
qualche impresario teatrale disposto a mettere
in scena i suoi numeri. A Edimburgo incontra
una giovane ragazza dall’allusivo nome di
Alice, ancora immersa in quel mondo di fantasia
tipico dell’infanzia. Il vecchio attore di
varietà, ormai al tramonto, si prenderà cura
di lei e la guiderà fino alle soglie della maturità,
accompagnandola dalla dimensione fantastica
dei sogni alla realtà della vita.
Echi chapliniani di Luci della ribalta, con
Jacques Tati come Calvero, risuonano in questa
trama che è un atto d’amore di un padre
per la figlia, ma anche un testamento spirituale,
un addio che Sylvain Chomet ha trasformato
in un prezioso gioiello che irradia
una luce calda e malinconica nello stesso tempo
sulla fine del cabaret e del music-hall, spazzati
via dal rock and roll e dai jukebox, nuovi
idoli adottati dalla società dei consumi.
L’eleganza del segno grafico, il gusto del tratto,
la felice fusione tra personaggi e ambiente,
le musiche originali ispirate alla tradizione celtica
(dello stesso Chomet), autentico battito
del cuore che pulsa all’interno del film, fanno
dell’Illusionista un piccolo grande capolavoro.
E Tati non avrebbe potuto trovare miglior esecutore
testamentario.
Enzo Natta