04/05/2010
Nicoletta Gargiulo, di Gragnano (Napoli), miglior sommelier italiano nel 2007. Sono sempre di più le donne che si dedicano alla degustazione dei vini.
I vini Doc sono diventati Dop per una decisione europea e già si vedono negli scaffali. Non cambia niente, soltanto la sigla, da denominazione d’origine controllata a denominazione d’origine protetta. Questa può essere considerata una stranezza normativa, perché ormai i consumatori si erano abituati alla sigla Doc, ma non è la sola. Manca per esempio l’obbligo di dichiarare in etichetta se il vino è secco, amabile o dolce.
Soltanto i singoli disciplinari dei vini Doc possono prevedere questo obbligo, ma spesso non lo fanno, quindi può capitare di comprare oggi un vino Doc secco e domani lo stesso Doc amabile, si può immaginare con quanta sorpresa. Non è neanche obbligatorio dichiarare se il vino è bianco o rosso e, infatti, spesso non è dichiarato. E’ il consumatore che deve sguerciarsi a guardare attraverso la bottiglia. E se la bottiglia è nera? Inoltre, non è obbligatorio dichiarare in etichetta l’annata del vino, se non è previsto dal rispettivo disciplinare o se questo ne dà solo la facoltà. Anzi, nei semplici vini da tavola è addirittura vietato, anche se imbottigliati dallo stesso viticoltore che ha vendemmiato. Il perché è un mistero. E c’è anche il mistero del vino cotto.
Gli esperti lo definiscono corposo, balsamico, profumatissimo e tonificante, ma è una rarità clandestina perché la legge ne vieta la commercializzazione, essendo considerata una sofisticazione del vino in base ai Regolamenti comunitari. Una volta il vino cotto era considerato una medicina e attualmente è celebrato nell’unica manifestazione in Europa che gli è dedicata, la sagra di Loro Piceno, un paesino nell’entroterra di Macerata. Il vino cotto locale si ottiene dalle uve migliori di Sangiovese, Trebbiano, Montepulciano, Maceratino e Verdicchio, il cui mosto viene fatto bollire per 8-10 ore in recipienti di rame. Ne viene ricavata una concentrazione pari ad un terzo di quella iniziale, che è fatta invecchiare per anche più di 30 anni in botti di rovere.
Il prodotto di questa lavorazione è una bevanda che –secondo gli esperti– non ha nulla da invidiare al Porto. E’ vietato anche chiamare vino il Fragolino, tanto che per un po’ di tempo i Servizi repressione frodi hanno fatto il giro di ristoranti, trattorie, bar e osterie per vedere se servivano sottobanco ai clienti il Fragolino, vino ricavato dall’uva fragola. Sembra che si tratti di un reato molto grave, più che vendere o comprare sigarette di contrabbando, poiché l’uva fragola non nasce da una
vitis vinifera come il Pinot o il Trebbiano e il Dpr n. 162/1965 ha vietato tassativamente di vendere vino non ricavato da una vitis vinifera. Il paradosso è che, mentre si può preparare e commercializzare una bevanda di fantasia con qualsiasi intruglio che viene in mente, con il vino non si scherza. Fortunatamente è stata trovata una scappatoia all’italiana: basta dichiarare sul menù o listino che non si tratta di vino, ma di una bevanda di fantasia.
Emanuele Piccari