16/05/2013
Il guanciale sarà pure un dogma nella carbonara. Ma si può diplomaticamente tradurre con una costoletta d'agnello, quando il maiale è da evitare per questioni di fede. C'è chi giura, anche così «è buonissima». Se il segreto del dialogo religioso, culturale e sociale passasse dai fornelli, con un paio di ingredienti molti problemi sarebbero risolti.
Tra tabuleh e lasagne, cumino e pizzoccheri la cucina riscopre vecchie mappe e recupera quell'itinerario gastronomico mediterraneo che ha unito i popoli assai prima dei tentativi politici o della mediazione interculturale.
C'è molto coraggio in un gruppo di donne straniere residenti nel cuore profondo del Nord, periferia imperiale del Paese, in una parrocchia di Como, frazione Rebbio. Arrivano da ogni dove - Eritrea, Tunisia, Marocco, Turchia, Egitto e Burkina Faso - queste allieve chef, novelle Babette, convinte che “sapori e saperi” possano fare la differenza. Così l'associazione I Ponti – a fine maggio un anno di vita – tra corsi di lingua per stranieri, supporto scolastico ai ragazzi, assistenza legislativa e fiscale ha lanciato, da novembre a febbraio, un corso di cucina italiana per donne immigrate, guidato dal professionista Massimo Rosato. Quattro mesi di ragù, besciamella, abbacchio e risotto. Quattro mesi per imparare a cucinare e anche a risparmiare. Ricotta e panna adesso si fanno in casa. Padelle che sfrigolano con l'extravergine mentre l'arrosto imbrunisce nel coccio a regola d'arte del Bel Paese ma la cucina ha nel Dna il dialogo tra popoli e il pollo alla diavola ha già una variante marocchina con salamoia di olive e cipolle.
Noura Amzil è nata a Rabat nel 1976, è in Italia dal '98 e fa la mediatrice culturale. Due figli, un marito. E' segretaria dell'associazione. «La cucina è un mezzo», spiega. «Le donne sono il motore dell'integrazione e per questo partiamo da loro». «Si vedono – prosegue – parlano, imparano e comunicano davanti ai fornelli e al cibo». Già, perché quando si mangia e si cucina i preconcetti, di ogni parte, cadono facilmente. «Alcune donne – dice Noura – sono molto legate al Paese d'origine. Noi con la cucina, e non solo, diciamo loro “siete tutte immigrate, ampliate i vostri orizzonti, andate oltre”». E poi c'è il benessere.
«Queste persone escono dalle mura domestiche, si incontrano, e tornano in famiglia più serene e rilassate. I figli ne sono felici, a scuola si innamorano del cibo italiano e lo chiedono anche a casa». Perché proprio dai figli parte l'investimento sul futuro. «Le donne li educano, spesso da sole, per questo è fondamentale abbiano una visione del mondo». Cosi, al fianco delle pentole, l'associazione tiene anche corsi di Islam. «Troppe donne – dice Noura – non lo conoscono davvero. Viene insegnato male con una lettura distorta, patriarcale e maschilista. L'islam, come molte religioni si presta a diverse letture, anche femministe. E' un Credo che, contrariamente a quanto si pensa, garantisce la libertà e l'integrazione. Purtroppo c'è chi non ha interesse a far emergere queste cose. Ma noi siamo la prova che l'Islam vuole dialogare».
E infatti si frequenta la parrocchia che ospita il corso. «Con il parroco – dice Noura –c'è un rapporto di chiarezza, fiducia, di confronto continuo. Il percorso è solo all'inizio e non dobbiamo sconvolgere alcun equilibrio nella vita dei fedeli, si rischia solo di portare alla paura e, quindi, alla chiusura totale». Dei passi sono comunque compiuti. «Lavoriamo insieme con i parrocchiani in oratorio, ci si da una mano, si svolgono attività. A Natale abbiamo scritto una lettera perché fosse letta durante le messe, a Pasqua qualcuno ha partecipato alle celebrazioni». A capodanno le donne dell'associazione hanno cucinato per la cena dell'oratorio. Adesso il corso con lo Chef è finito ma le allieve neodiplomate insegnano alle nuove leve e altrettanto faranno, tra qualche mese, queste ultime. Tutto, per ora, pare funzionare. Un inizio, insomma. E i mariti? «Mangiano e sono felici». Già, perché la tavola alla fine è uguale per tutti.
Davide Cantoni