La famiglia "patchwork" in Germania

Da dati recenti su matrimonio e divorzio in Germania un'occasione per riflettere sulla famiglia “ricostituita”. Alcuni spunti di riflessione di un giornale tedesco.

21/09/2011
Frankfuerter Allgemeine Zeitung
Frankfuerter Allgemeine Zeitung

Secondo dati statistici diffusi in questi giorni il 39% dei matrimoni tedeschi finisce con un divorzio, ma la loro durata media aumenta: nel 2010 era di 14 anni e due mesi, mentre nel 1992 i matrimoni tendevano a durare solo 11 anni e sei mesi. (Statistiche Bundesamt, 13 settembre). Secondo il portavoce dell’ufficio statistico negli ultimi anni non ci sono da osservare cambiamenti significativi.  Numericamente, il numero dei divorzi tende a diminuire, ma questi dati vanno interpretati in un contesto dove anche il numero dei matrimoni diminuisce: mentre nel 2009 erano sposati 39 milioni di tedeschi, nel 2010  lo erano solo 35 milioni.

Nella Germania riunita i dati differiscono tra Est e Ovest: i matrimoni “tengono” di più nei Lander  dell’Est, dove divorzia “solo” il 33% mentre la durata media di questi matrimoni è di quasi 16 anni. Nel 2010 quasi il 53% dei divorzi è stato chiesto da donne, il 39% da uomini e nei casi rimanenti la domanda è stata presentata da entrambi.  Nell’81% dei casi i coniugi vivevano già separati da almeno un anno al momento della domanda.

A margine di questi dati il quotidiano Frankfuerter Allgemeine Zeitung pone qualche  riflessione sulle “famiglie patchwork”, che inevitabilmente scaturiscono in questo contesto. La “famiglia patchwork”, parola più colorita rispetto alla nostra “famiglia ricostituita”, cerca di cucire insieme parti di più famiglie, ma ci si chiede se le foto delle vacanze di famiglia che girano in questi giorni non nascondono anche delle false felicità familiari.

La mania dell’auto-realizzazione, dice l'autrice del servizio la giornalista Melanine Muhl (e di cui riportiamo una sintesi), chiede il suo prezzo e a pagare sono spesso i figli. Non si può riprendere la propria vita come se non fosse successo niente, i nostri atti hanno delle conseguenze. Questo è certamente un pensiero che disturba, in un mondo che pretende di vivere senza legami, dove crediamo di meritare il meglio: una casa migliore, un lavoro migliore e magari anche un partner che ci conosce, ci comprende e ci sostiene come l'altro non sapeva fare.

Abbiamo inventato la famiglia patchwork, parola colorita appunto che evoca immagini leggeri e allegre. Ma domandiamoci: e i figli? A loro volta rischiano di separarsi in misura doppia dei coetanei, cadono più facilmente in depressione, è come se perdessero la fiducia di fondo.

Negli anni settanta/ottanta, i papà si ricostruivano ”una nuova vita” dall’altra parte del Paese, vedevano i figli a Natale e per le vacanze. “Oggi i padri sono vicini, incoraggiati dal mondo del lavoro a dedicare tempo ai figli, sanno cambiare il pannolino e cucinare”, scrive la Muhl. Allora i figli del divorzio erano pochi, adesso è probabile che siano i compagni di banco. Il divorzio è diventato una normalità, e non più un brutto tiro del destino. I figli conoscono i nuovi partner dei genitori e i rispettivi figli. Vivere inseriti in tante relazioni è meglio che vivere con troppo poche, dicono gli esperti, conta la qualità, e cosi ci siamo creato anche le infrastrutture della coscienza.


Nella famiglia che chiamiamo “normale”, ma che statisticamente ha iniziato a non essere più la norma, non ci si chiede più di tanto se i genitori, nonni, fratelli siano simpatici. Appartengono alla sfera del “dato per scontato”. Come lo sono le abitudini di famiglia, piacciano o non piacciano.
I figli che festeggiano Natale e Pasqua due volte, che vanno due volte in vacanza, devono invece trovarsi una strada in un intreccio di legami più complicato.
Dire che va tutto bene sarebbe una finzione, individuale e sociale.

 

Harma Keen, Cisf
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