Nasce down, condannato il medico

Il sanitario non aveva prescritto tutti gli esami e la Cassazione lo condanna al risarcimento. Una sentenza che forza il senso della legge 194.

11/10/2012
Thinkstock
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Sta facendo molto discutere una recente sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato la Ulss di Castelfranco (Treviso) e un medico ginecologo in solido a risarcire una famiglia per non aver diagnosticato la sindrome di down ad un feto durante una gravidanza poi portata a termine. In breve il medico aveva prescritto alcuni esami di accertamento ma non l’amniocentesi, esame più preciso ma più invasivo, e dunque potenzialmente pericoloso. Se la malformazione fosse stata diagnosticata la mamma probabilmente avrebbe abortito. La novità della sentenza è che, a differenza del passato, ora, oltre ai genitori e ai fratelli, è stato dichiarato soggetto risarcibile anche la stessa bambina down.

Riconoscimento, dunque, della soggettività giuridica del feto? Nient’affatto, la sentenza della Corte (sentenza 16754/2012) afferma: «Il diritto alla procreazione cosciente e responsabile è attribuito alla sola madre per espressa volontà legislativa, sì che risulta legittimo discorrere, in caso di sua ingiusta lesione, non di un diritto esteso anche al nascituro in nome di una sua declamata soggettività giuridica, bensì di propagazione intersoggettiva degli effetti diacronici dell'illecito, con l'indispensabile approfondimento sul tema della causalità in relazione all'evento di danno in concreto lamentato dal minore nato malformato». In sostanza il disabile è risarcibile in conseguenza della sua nascita. Meglio, in parole povere, se non fosse mai nato. «È come se si dicesse: ti paghiamo perché sei nato, era meglio se non nascevi», conferma Marina Casini, giurista e ricercatrice di bioetica presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. «Un conto è il risarcimento del danno per mancata informazione dovuta a negligenza, un conto è chiedere il risarcimento perché avrei voluto abortire e mi è stato impedito. Qui si parla esplicitamente di diritto di autodeterminazione della madre alla morte del proprio figlio, leggendo la legge 194 come un vero e proprio diritto all’aborto. Si tratta di un’interpretazione molto spinta, lontana da quello che nel 1975 disse la Corte Costituzionale che impostò l’aborto non sul diritto della madre ad abortire ma sullo stato di necessità: era un conflitto tra due soggetti, dando prevalenza alla donna ma non negando l’umanità del figlio», chiarisce. «Questa sentenza ha cancellato questo principio e ha esteso al massimo il diritto della donna negando la soggettività dell’embrione, cosa che invece ormai molti documenti anche europei riconoscono». Insomma, «un gravissimo passo indietro, una sentenza che va a indebolire la percezione della persona umana».

Stefano Stimamiglio
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