28/11/2011
Il cardinale Gianfranco Ravasi con il presidente della sezione milanse dell'Amci, Giorgio Lambertenghi Deliliers.
La malattia al centro della riflessione dell’Amci, Associazione medici cattolici italiani, sabato scorso a Milano. «Oggi è a tema la malattia e con essa la morte», ha esordito il presidente Giorgio Lambertenghi Deliliers, inaugurando il convegno annuale all’Auditorium del Centro Congressi dell’Assolombarda a Milano dal titolo “La dimensione antropologica e teologica della malattia”. Una riflessione che, partendo dalle prospettive diverse dei vari relatori, ha cercato di sviscerarne l’essenza, tenendo ben presente le due dimensioni che presenta l’esperienza umana del soffrire: l’aspetto antropologico - con tutto il suo carico di domande del malato, che possono farlo sentire rinchiuso in una faticosa immanenza - e l’aspetto teologico, la tensione naturale verso un “oltre”, verso la trascendenza.
Alessandro De Franciscis, 15° medico permanente e presidente del Bureau de Costatations Médicales del Santuario di Lourdes, ha ricordato che esistono ad oggi 67 guarigioni miracolose riconosciute dai vescovi d’Europa e ben 7mila casi di altrettante guarigioni ritenute inspiegabili. Una nota più che curiosa è però che «in nessuna apparizione e dialogo fra Bernadette e la Vergine si fa riferimento alla malattia e ai malati», come ha spiegato il medico. Con ampie citazioni degli eventi accaduti in quel breve lasso di tempo compreso fra febbraio e luglio 1858, De Franciscis ha poi messo in evidenza come la veggente - malata e malnutrita, indebolita da un’asma bronchiale grave - non guarirà mai dai suoi mali, a differenza di tanti altri. Dove sta allora il cuore dell’esperienza di Lourdes? «È la coscienza salvifica della croce il cuore dell’esperienza di Bernadette e di milioni di pellegrini malati credenti e non credenti, guariti e non guariti», ha affermato De Franciscis: «La croce guarisce il cuore nei mille piccoli episodi che rimangono segreti». E' qui allora il segreto di Lourdes? Si: «Ogni malato si sente accolto, ma il fondamento di tutto è la preghiera, che guarisce innanzitutto i cuori nell’incontro con il Figlio crocifisso».
Paola Bassani (seconda da destra), durante la presentazione del suo ultimo libro "A passo di coppia" (Paoline).
Paola Bassani, psicologa e psicoterapeuta, ha invece reso partecipe la sala gremita della sua toccante esperienza personale, occasione per parlare della decisiva alleanza tra il medico e il paziente. «All’ospedale s’impara a stare male aiutati dagli occhi sereni, accudenti e caldi dei medici, che ti danno speranza senza darti troppe spiegazioni », ha rivelato non senza emozione la donna, sposata e madre di tre figli. «È uno sguardo quello che conta, esattamente come è il primo sguardo della mamma alla tua nascita quello che ti salva». «Il dolore ti fa vomitare le parole», ha sussurrato la Bassani in una sala ammutolita, «sentire che anche questa rabbia viene accolta ti fa sentire meglio». Un cammino di fede che ha potuto, nella malattia, andare oltre il limite, scandaloso per occhi benpensanti, fino alla rabbia con Dio, mitigata solo dalla riscoperta dalla tenerezza di Maria. Il segreto del malato, nell’esperienza della Bassani, è stato quello della “resilienza”, termine che altro non significa se non “lasciarsi andare”, attraversare il male senza resistenza, «senza irrigidirsi perché sennò fa più male». La lettura delle toccanti poesie composte dalla donna durante il tempo della malattia hanno dato “carne” alla sua esperienza.
Padre Carlo Casalone sj, superiore provinciale dei gesuiti italiani e medico, ha riconosciuto «che la medicina è costruita da un sistema di conoscenze che non si lascia facilmente articolare in una relazione umana». «La medicina», ha proseguito, «è un insieme di modelli che si insegnano e si studiano, da cui si estraggono i vari sistemi – cardiologia, apparato respiratorio, ecc. - per poi ricomporli nella persona umana e riprodurli a livello macro nei vari reparti specializzati dell’ospedale». Il problema della medicina, oggi, è proprio qui: «Il medico ripara una “macchina cibernetica”, il suo intervento è un fatto tecnico fatto di azioni e di reazioni per modificare il corso del naturale svolgimento della patologia». Questo fa sparire il soggetto “paziente”, creando una «visione oggettivante che non tiene conto che il medico incontra un soggetto con le sue crisi di disperazione, di gelosia, con la singolarità delle sue relazioni, la sua tendenza alla trascendenza, la capacità di assumersi delle responsabilità». Il soggetto, dunque, «“ha” il corpo ma “è” anche il corpo», e di questo va tenuto conto. Padre Casalone ha anche fatto riferimento alla scienza dell’antropologia culturale, che studia le forme elementari della malattia e della guarigione. «Secondo gli antropologi vi sono due modelli di malattia», ha specificato il gesuita: «Uno esogeno, secondo cui la malattia ha una consistenza propria, esterna, che “invade” l’uomo facendogli “il male”. Così ad esempio diciamo: “Ho preso l’influenza", facendo riferimento al virus». Il secondo modello è «endogeno e funzionale e vede la malattia come l’alterazione di qualcosa che è dentro». L’integrazione dei due modelli secondo una prospettiva olistica rappresenta forse la soluzione più adatta perché considera l’uomo in tutte le sue dimensioni: «La scienza deve certamente essere “oggettivante” ma è anche importante che non si interpreti la malattia solo secondo la scienza ma che si accolgano invece tutte le domande si senso del malato», ha concluso il gesuita.
Il cardinale Gianfranco Ravasi sul palco con Massimo Cacciari (Foto di Vittorio Bubola).
La seconda parte della mattinata ha visto protagonista il dialogo fra il filosofo Massimo Cacciari e il cardinale Gianfranco Ravasi. «Il male è un mistero», ha esordito Cacciari. «Se c’è nascita ci sarà anche distruzione, se c’è felicità ci sarà anche infelicità, se il bene anche il male… e il sapiente riesce a vedere insieme l’una e l’altra come parte dell’ordine cosmico; l’ignorante vede invece in modo separato i due». Questo tuttavia è un modo “necessitante”, schematico di vedere il mondo, smascherato solo dal male morale nella sua essenza: «La domanda di fondo è: è necessario il male morale? Così però costringiamo Dio a piegarsi alla necessità: “se ci fai liberi devi farci anche capaci del male”, siamo soliti dire», ha spiegato Cacciari. Ma questo significa, secondo lui, «imprigionare il Signore a uno schema logico, naturalistico, necessitante», tipico della teodicea ma poco convincente. Invece il Logos «protesta contro il male necessario, il male non è un oggetto necessario, inevitabile, una semplice conseguenza ma è una figura, una persona». La risposta, sorprendente perché viene da un filosofo laico, è che «il vangelo ci spinge all’estremo confine del possibile, anzi a ciò che è impossibile, la morte in croce per amore».
La relazione del filosofo è stato un ottimo assist a Gianfranco Ravasi, che ha ricordato come il centro di tutto sia l’Incarnazione: «Il Cristianesimo e l’Antico Testamento è un ininterrotto impolverarsi nei rigagnoli della malattia, della creaturalità, dei limiti che la sapienza greca già aveva affrontato». La vera novità è che «Cristo reagisce alle teorie tipiche della teodicea e risponde alla domanda dei discepoli, che gli chiedono i motivi della sofferenza del cieco nato, che né lui né i genitori hanno peccato ma è solo perché si manifesti in lui la gloria di Dio». È proprio qui, secondo Ravasi, che «si entra nella parola “mistero”, che non è quella “oscurità” in cui ci si perde, ma l'autentica sfida al pensiero di andare "oltre", di approdare in definitiva all’amore». L’esperienza di Giobbe è significativa: «Giobbe, spazza via la soluzione razionale, il sillogismo rappresentato dagli amici, per cui è il peccato personale causa della malattia». Giobbe arriva a incriminare Dio direttamente, lasciando ormai perdere gli amici. «Questo desiderio di dialogo supremo è la chiave per riuscire a trovare collocazione allo scandalo del dolore, che supera ogni razionalità, per giungere a una meta che giace dentro di me», ha argomentato il cardinale. «Il libro di Giobbe», ha concluso Ravasi, «finisce con una frase significativa: “prima ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono e io taccio perché ti ho visto”». Un cammino di conoscenza che può insegnarci molto.
Stefano Stimamiglio