22/06/2011
Secondo recenti dati forniti durante il convegno "Equilibrio tra vita e lavoro. L'integrazione della donna nell'economia" l'occupazione femminile nel nostro Paese è ferma al 46,4% (al Sud ancora meno: solo 40%). Meno di una donna su due, in altri termini, risulta occupata. La situazione cambia sostanzialmente se allarghiamo la visuale: in Europa la percentuale di occupazione femminile arriva al 58%.
Se il divario di genere in Italia si riducesse fino ad annullarsi, cosa possibile solo con una decisa politica familiare per conciliare i tempi di lavoro e della famiglia, il surplus di lavoro femminile genererebbe un aumento del Pil fino al 24% del valore attuale. Se oggi il Pil è così depresso, dunque, è in parte per la minore occupazione delle donne ma anche, cosa nota, per il consistente gap salariale rispetto agli uomini, che si attesta intorno al 20%. Fatto abbastanza inspiegabile se si considera che, come ha detto la giornalista del Sole24ore Monica D'Ascenzo, «il 60% dei laureati è
donna, con una media alla laurea e degli esami più alta rispetto agli
uomini» mentre «la percentuale di occupazione
femminile nelle aziende è ferma solo al 7,2%». E' il settore pubblico, dunque, che contribuisce ad alzare la media dell'occupazione femminile.
«La forma oggi più inquietante e
preoccupante di conflitto identitario, nel mondo occidentale, non è
quello di civiltà ma quello di genere», ha rincarato l'economista Stefano Zamagni. «Non abbiamo ancora una teoria che
ci aiuti a risolverlo, cioè un pensiero che avanzi ipotesi di soluzione
e li metta alla verifica empirica. Bisogna quindi passare dal regime
concessorio a quello del riconoscimento», ha proseguito. Zamagni ha insistito su una responsabilità familiare delle imprese e ha invitato le
aziende a promuovere un welfare
di tipo aziendale. In questo campo, se un primo stimolo deve venire sicuramente dallo Stato, a un secondo livello dovrebbero essere invece le imprese e il Terzo Settore a fungere da volano: laddove le piccole realtà aziendali non abbiamo le
capacità di finanziamento dei servizi a favore della donne occorrerebbe passare a una sorta di welfare di territorio: «le aziende devono
imparare a consorziarsi, per dar vita a cooperative di comunità». Un auspicio che in qualche regione sta già diventando realtà.
Stefano Stimamiglio