11/03/2012
Foto Marka
A leggerlo ti si raggela il sangue nelle vene. Argomentazioni e motivazioni che sembrano scritte ed elaborate 70 anni fa piuttosto che da una rivista scientifica mensile specializzata di oggi, The Journal of medical ethics. L’articolo dal titolo “After-birth abortion: why should the baby live?” pubblicato qualche giorno fa dai bioeticisti Francesca Minerva e Alberto Giubilini ha suscitato polemiche accese sui giornali per una tesi agghiacciante: alle stesse condizioni per cui si uccide il feto nel grembo della madre dovrebbe essere permessa anche la soppressione dei bambini appena nati. Entrambi membri della Consulta di bioetica, un'associazione culturale di impianto laicista che promuove le tesi radicali sui temi di bioetica, i due autori dell’articolo sostengono che «quando dopo la nascita si verificano le stesse circostanze che giustificano l'aborto prima della nascita, quello che chiamiamo aborto post-natale debba essere permesso». Per aborto post-natale naturalmente si spaccia il vecchio “infanticidio”, utilizzando ancora una volta il metodo di cambiare i termini per rendere più “soft” una tesi altrimenti inaccettabile.
L’uccisione dei bambini già nati sarebbe dunque permessa per i due autori sul presupposto che «lo status di un neonato è equivalente a quello di un feto che non può essere considerato persona in un senso moralmente rilevante». Quando subentra la “rilevanza morale” secondo loro? «Noi chiamiamo persona un individuo che è capace di attribuire alla propria esistenza almeno alcuni valori di base come il ritenere una perdita l’essere privati della propria esistenza (…). Tutti gli individui che non sono nelle condizioni di attribuire alcun valore alla propria esistenza non sono persone…». La conclusione è: «Chiediamo che uccidere un neonato sia eticamente accettabile in tutti i casi in cui lo è l'aborto». Questi neonati (esattamente come, secondo Minerva e Gibilini, i feti) sarebbero solo “persone potenziali”: «Se una persona potenziale, come un feto o un neonato, non diventa effettivamente persona, come me e te, allora non esiste né un'attuale né una futura persona che possa essere lesa, il che significa che non c'è alcuna lesione». Insomma, a decidere se la lesione c’è o non c’è è ancora una volta il più forte, chi si può vantare già di essere una “persona” con capacità decisionale e non solo una “persona potenziale”. In un successivo intervento sul sito della rivista, i due autori, mostrandosi sorpresi delle reazioni suscitate, hanno fatto passare come semplice “esercizio di logica” la tesi, coerente con lo scopo di una rivista scientifica. Esercizio puramente accademico, dunque. Viene quasi il sospetto che si inizia sempre così, conferendo l’aurea di “accademicità” a una tesi "scandalosa" o, come in questo caso, semplicemente disumana. Poi, una volta “sdoganata” e fatta passare attraverso il filtro dell'opinione pubblica, si vedrà. La tesi che si vorrebbe far passare cozza naturalmente contro i principi basilari della convivenza umana. Per limitarci all'articolo 1 del codice civile italiano, ad esempio, esso suona così: «La capacità e volontà giuridica si acquista dal momento in cui una persona fisica nasce». La condizione dell’evento della nascita, dunque, conferisce al soggetto, indipendentemente dalla sua condizione fisica e medica, la capacità di essere destinatario di diritti, in primis quello della vita.
Paola Bonzi (in mezzo) a un convegno.
Abbiamo chiesto a Paola Bonzi, fondatrice del Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli di Milano, una sua opinione sulle tesi suggerite dall’articolo.
- Cosa si può ragionevolmente pensare di questa tesi?
«Mi sembra una pazzia. Pensare che un bambino, solo perché è piccolo, possa essere soppresso mi sembra una vera follia. È una tesi che non considera la dimensione della creaturalità, il fatto che non ci siamo creati da noi. Mi chiedo dove stiamo arrivando. Nel nostro Cav abbiamo avuto alcuni casi di morte di neonati annunciata da malattie pregresse: una bimba anencefala ad esempio, cioè senza il cervello, di nome Maria Isabella era destinata a una morte sicura. Il papà e la mamma l’hanno fatta nascere e poi battezzare. Per un’altro bambino, Francesco, affetto da Trisomia 18 - patologia che non fa sviluppare il cervello e che causa delle deformazioni fisiche - i medici hanno pressato la madre perché abortisse. Lei non ha voluto. Francesco è cresciuto bene finchè è vissuto, cioè un anno. Dopo la morte la mamma era serena e ci ha detto: “Ho goduto di mio figlio almeno per un anno”. Chi invece sopprime la vita di un bambino, nel grembo materno ma immagino ancor più dopo la nascita, dentro si porta poi un dolore inverosimile, che spesso si porterà per tutta la vita. Lasciare che la natura faccia il suo corso è un atto coraggioso ma paga perché poi la mamma è serena».
- Non trova che è un metodo che funziona il cambiare i termini, “aborto post-mortem” invece che “infanticidio”, per rendere una pratica ritenuta disumana più…soft?
«Certo. Oggi chiamano l’infanticidio aborto post-natale. La stessa cosa si può dire quando abbiamo cambiato il termine “aborto” in IVG, “interruzione volontaria di gravidanza”. Produce decisamente un altro effetto. Credo che occorra tornare a usare i termini originari, più corretti».
- Lei pensa che ci sia un piano di azione di medio-lungo periodo nel proporre oggi, quasi a mo’ di provocazione, questa tesi?
«Certamente. Lo vedo tra i miei stessi operatori: anche loro parlano di “IVG”, una certa terminologia entra nel linguaggio comune e si svilisce così il vero significato. Si tratta di una cosa falsa e forse anche oso dire diabolica, perché perde la durezza del suo significato originale. Ripeto: chiamiamo le cose con il loro nome, è una questione di onestà per capire cosa si sta facendo».
- Una delle cose che si dice nell’articolo citato è che, anche abbandonare il figlio nato a favore di coppie adottanti, può causare shock nella donna. Ma ucciderlo non è forse peggio?
«Mi sembra ovvio. Ci sono persone molto coraggiose che sono disponibili a occuparsi di bambini malformati. Esistono modi semplici per la mamma di dichiarare al momento della nascita di non voler riconoscere il figlio. A quel punto il tribunale si dà da fare per farlo adottare da coppie che hanno manifestato la loro disponibilità. A Milano, ad esempio, in media il tribunale riesce a trasferire il bambino abbandonato in una famiglia adottiva in non più di 10 giorni».
Stefano Stimamiglio