22/12/2011
Suo figlio vuole cambiare scuola e andare in
quella dove notoriamente promuovono tutti.
«Mi mostro molto seccata», racconta la mamma,
«e gli faccio la predica sull’impegno, sullo
spirito di sacrificio, ma rimane della sua idea.
Porto esempi di ragazzi che poi se ne sono pentiti,
ma lui si irrita. Mi chiede più soldi di quanti
gliene possa dare per uscire a divertirsi con gli
amici. Frequenta figli di papà con molto denaro
in tasca, locali alla moda di Milano, lo sento al
telefonino entusiasta mentre balla: qui ci sono
delle belle “fagiane” (intese come belle ragazze).
Io gli ricordo che i soldi non vanno buttati,
che qualcuno li guadagna con fatica, gli porto
esempi di ragazzi viziati che non combinano
nulla, lo proietto nel futuro facendogli intuire il
bilancio che potrebbe trarre a 40 anni, ma nulla
lo smuove. La domanda: perché credi che le
ragazze del locale ti stiano intorno, non riceve
nemmeno una risposta. Vuole una felpa da 400
euro e io faccio ricorso a tutto il mio buonsenso:
uno sciocco rimane tale anche con la felpa
costosa, non è l’abito che fa il monaco, insomma
do fondo a tutto il repertorio classico per
dissuaderlo. Risposta: non rompere, quando
mi porti a comprarla?».
A questo punto la verità è evidente perché il figlio
sta dicendo: voglio fare il minimo indispensabile
e fare la bella vita. E anche: ho deciso che non
ascolterò i tuoi consigli, farò di testa mia e non riuscirai
a convincermi. Una verità, questa, così dolorosa
da essere molto difficile da accettare. Il figlio
sta dicendo “NO” ai consigli, alle raccomandazioni
dei genitori, tanto vale partire da questa realtà.
Senza negarla, pretendendo di fargli cambiare
idea senza che lui lo voglia. È un momento drammatico,
che precede e accompagna un passo invisibile
e doloroso del genitore che si “arrende” e accetta
la propria impotenza. La rabbia e l’esasperazione si trasformano
progressivamente in delusione, preoccupazione,
amarezza. Sono i tre chiodi che inchiodano
alla croce dell’impotenza.
In molti casi è una croce che non si può evitare,
si può solo decidere che farne. La si può trascinare
maledicendola, o la si può portare sulla
spalla, con dignità. La disperazione è data dalla
pretesa di cambiare il figlio, di impedirgli di sbagliare,
nel vano tentativo di evitargli errori e
scelte che potrebbero costargli amarezze e fallimenti.
Tutto molto comprensibile, certamente
dettato dall’amore, ma inutile. Il genitore si sente
come una mosca che sbatte contro il vetro.
Deve accettare ciò che non vorrebbe: che il figlio
debba soffrire per capire, attraversare il
dolore delle conseguenze per diventare saggio.
Di non poterlo risparmiare dal rischio, dal
fallimento, dal male. Quanto è vero che le tenebre
hanno il potere di rifiutare la luce. È il dramma
dell’amore incompreso e rifiutato.
A quel punto succede che il genitore guarda il
crocefisso e capisce ciò che fino ad allora non
aveva compreso fino in fondo.
Osvaldo Poli, psicologo e psicoterapeuta