08/02/2013
Francesco D’Agostino, professore di Filosofia del diritto all’Università Tor Vergata di Roma, ha aderito alla campagna Uno di noi in qualità di Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani (UGCI).
- Che cosa l’ha spinta ad aderire alla campagna?
«Una doppia ragione. Prima di tutto, la volontà di ribadire che la vita è il principio di ogni altro principio. Un giurista cattolico non può non condividere quest’idea, poiché la difesa della vita in ogni sua fase è uno dei principi costitutivi del diritto naturale. In secondo luogo, è interessante lo strumento, di alto valore democratico, scelto dai promotori della campagna. Forse per la prima volta nell’Unione Europea, si fa ricorso alla possibilità introdotta il 1 aprile 2012, che incoraggia l’iniziativa dal basso dei cittadini. Se saranno raccolte un milione di firme in almeno sette Stati, il Parlamento e il Consiglio dei Ministri europei saranno chiamati ad esprimersi nel merito dell’appello “Uno di noi”. In tal caso, potremmo verificare se, in una logica di convergenza di valori europei, esistono dei valori bioetici e morali condivisi sulla difesa della vita».
- Qual è il legame tra la sua adesione e la professione di giurista?
«Il voler contrastare la diffusione di una legislazione subdola. Negli Stati europei, si stanno moltiplicando normative che costituiscono un attentato alla vita umana. Si minaccia la vita non in maniera frontale, come avviene con la pena di morte, ma in modo indiretto. È il caso recentissimo dell’introduzione in Germania della possibilità di diagnosi prenatale e preimpiantatoria degli embrioni. In via teorica, è uno strumento di conoscenza, mentre nella pratica ne consegue la distruzione degli embrioni. Oppure, è il caso delle normative sul divieto di accanimento terapeutico: un principio legittimo, condiviso da tutti i giuristi e formulato addirittura da Pio XII, si sta trasformando nell’abbandono terapeutico e in forme di eutanasia passiva».
- Da un punto di vista giuridico, quali sono le posizioni in campo?
«La nostra è monistica, unitaria, cioè vede la vita umana portatrice di dignità assoluta dal concepimento alla morte naturale. Non è un caso di fanatismo assoluto: tornando al divieto di accanimento terapeutico, concordiamo che la vita all’ultimo stadio possa spegnersi senza virulenze tecnologiche da parte dei medici. Pensiamo si debba rispettare la vita come valore intrinseco e, al contempo, indicare alla medicina le modalità più adeguate dal punto di vista bioetico. La posizione opposta, invece, è dualistica per due motivi. Da un lato, divide radicalmente la vita tra pre e post parto, con la prima considerata molto meno degna di tutela. Dall’altro, distingue tra vita malata e sana, arrivando a considerare le malattie senza speranza di guarigione talmente invalidanti da togliere dignità alla vita del malato. Da qui, l’apertura all’eutanasia».
- È una battaglia in difesa dei più deboli?
«Sì, ci sono situazioni di gravissima fragilità, come la vita prenatale e la vita malata, che sono affrontate in maniera cinica, cioè la stessa debolezza di queste vite ne dimostrerebbe la carente dignità. La marginalizzazione dei deboli, che nessuno proclama apertamente ma è fortemente operante, è un rischio mortale per la civiltà occidentale. Ad esempio, accanto al maggior rispetto dei diritti dei disabili, ovviamente positivo, si fa strada l’idea che meno bambini handicappati nasceranno, più si progredirà verso una presunta civilizzazione. Dobbiamo tornare a riflettere sulla fragilità intrinseca di tutte le vite umane, anche di chi è sanissimo. Nell’assoluta fragilità dell’embrione, possiamo vedere la “biografia” dell’uomo, segnata dalla debolezza, dalla precarietà e dalla mortalità: difendere questa fragilità e i più deboli tra i deboli è il modo più semplice per combattere la violenza».
Stefano Pasta