25/01/2013
Franco Perlasca e, alle sue spalle, un'immagine di suo padre Giorgio.
Una donna estrae tre oggetti da una borsa. Una tazzina da caffè, un cucchiaino e una medaglietta. «Tenga», dice. « È quanto la mia famiglia ha strappato alla guerra e all’invasione, sono doni per lei». Gli occhi dell’uomo si fanno lucidi e rifiuta: «Sono per i suoi figli - le risponde -, per i suoi nipoti. Li dia a loro». «No signore, senza di lei non avrei avuto né figli, né nipoti». È il 1988, la donna si chiama Eva Lang, è ungherese, ha raggiunto Padova col marito Pal, per conto di un gruppo di ebree di Berlino e Budapest.
Per la prima volta dopo quasi 45 anni, la storia di Giorgio Perlasca viene raccontata. Pochi sapevano di quell’uomo, nato a Como nel 1910, forte sostenitore del partito fascista fino al 1938, cioè fino alla promulgazione delle leggi razziali e all’alleanza con Hitler. Pochi sapevano di come questo sconosciuto si finse un diplomatico spagnolo e rilasciò salvacondotti falsi salvando la vita a 5.200 ebrei. Molti di più, forse, visto che ogni documento valeva per un intero nucleo famigliare. Il Talmud racconta di come ogni generazione abbia 36 giusti. Uomini da cui dipende la salvezza dell'umanità. Uomini umili chiamati all’azione e che, dopo aver svolto il proprio compito, tornano nell’ombra dell’anonimato. «Mio padre era uno di questi», dice Franco Perlasca, figlio di Giorgio, il “magnifico impostore”.
La sua famiglia, per quasi mezzo secolo, è rimasta all’oscuro di tutto. Suo padre non parlò mai di quanto aveva fatto?
«Raccontava piccoli episodi dell’Ungheria, di quanto aveva visto. Ma non avremmo mai immaginato, io e mia madre, che fosse un protagonista della Storia».
Poi, nel 1988, l’arrivo dei coniugi Lang a casa vostra…
«Già nel 1987 il muro di Berlino stava virtualmente cedendo e l’Ungheria sentiva arrivare la libertà. Il regime allentava la morsa e le persone tornarono a pensare all’occupazione, alla guerra, alla memoria. Così, queste donne ebree misero insieme i pezzi, si fecero aiutare dalle ambasciate israeliane e arrivarono a mio padre. In realtà la sua storia non era così sconosciuta».
In che senso?
«I fatti erano noti al nunzio apostolico vaticano Angelo Rotta e all’ambasciatore spagnolo Ángel Sanz Briz; entrambi lavorarono a Budapest con papà per salvare gli ebrei. E poi c’erano le copie del memoriale: una consegnata allo stesso ambasciatore, l’altra al governo italiano. La terza e ultima era a casa».
Il memoriale è poi diventato il libro L’impostore. Quella copia era nascosta?
«In realtà, negli anni Ottanta mio padre rischiò di morire. Confidò a mia moglie l’esistenza del documento. Lo prendemmo ma forse non lo capimmo, forse non eravamo pronti. Poi lui guarì e nascose tutto di nuovo».
Lei era presente il giorno in cui la verità fu raccontata?
«Sì. E fu uno choc. Lo è stato per molto tempo, non che non fossi orgoglioso di lui, ma è difficile da spiegare. Credetemi, fui travolto dalla sua grandezza».
E oggi?
«C’è voluto molto tempo perché cominciassi a testimoniare la sua vita. Ho iniziato qualche anno dopo la sua morte. Oggi c’è la Fondazione, tengo settanta conferenze l’anno. Ma in pubblico parlo di Giorgio Perlasca, non di “mio papà”».
Perché?
«Perché il fatto sia meno personale, meno intimo. Inoltre, non devo farmi schiacciare, la gente non viene a sentire me perché sono bravo ma perché posso dare voce alla Storia. Ho dovuto trovare un punto d’equilibrio tra ciò che sono e il racconto della sua vita. Oggi vivo tutto con allegria».
Anche i suoi figli?
«Un nonno così va preso per il verso giusto, è un’eredità pesante. Il più grande ha 25 anni, il piccolo 16. Fin da bambini, ogni volta, in occasione della Giornata della memoria, hanno ricevuto richieste dagli insegnanti perché parlassero dell’Ungheria e di mio papà. È una cosa bella ma non è stato sempre facile; ci sono anche momenti di rifiuto nei ragazzi. La memoria di mio padre deve essere presa con scioltezza. Come dicevo, con allegria».
Perlasca è stato fascista…
«Un dannunziano, nazionalista, fece la campagna d’Africa. Poi lasciò per le leggi razziali, per i nazisti e, in seguito, non aderì alla Repubblica sociale. Ma non si pentì mai della sua storia».
Che è stata scomoda per tutti…
«Sì. Quando la vicenda emerse fece il giro del mondo. Eppure l’Italia ci mise più tempo a raccontarla. Fu solo grazie a giornalisti come Enrico Deaglio e Giovanni Minoli che se ne parlò. La vicenda di Perlasca costrinse a una rilettura. Cattivi e buoni non si potevano più dividere in due gruppi. Inoltre, il Paese dovette fare i conti con il proprio ruolo nella deportazione degli ebrei. Mio padre ha rovesciato un paradigma».
Poi, la fiction…
«La Rai ci mise anni per realizzarla. Una storia diversa da tutte quelle raccontate fino a quel momento. Qualche dirigente di allora lo ammise: solo con la caduta della prima Repubblica e l’addio ai vecchi fardelli si poté parlare in Tv di mio padre».
Con il volto di Luca Zingaretti…
«Mia madre apprezzò moltissimo la sua interpretazione ma quando lo incontrò, fu sinceramente spietata. “Mio marito - gli disse - era molto più bello di lei”».
Cosa dice oggi la voce di Perlasca?
«L’umanità deve conoscere la storia perché solo così può sviluppare gli anticorpi alla violenza, all’intolleranza e maturare un rifiuto collettivo dell’odio. Mio padre parlava soprattutto ai giovani».
Davide Cantoni