29/12/2011
La pizzeria della famiglia Impastato a Cinisi, in provincia di Palermo, distrutta da un incendio.
Il 9 dicembre è bruciata, in piena notte, la pizzeria della famiglia Impastato a Cinisi, vicino a Palermo. Un incendio che ha distrutto una parte significativa dei locali, con un danno stimato intorno ai cinquantamila euro.
La pizzeria Impastato non era semplicemente un luogo dove mangiare una buona pizza; la sua attività era anche legata ad una serie di iniziative, convegni e incontri sui temi dell’antimafia nel corso di tutto l’anno. Questo suo essere simbolo di resistenza civile ha dato fastidio a qualcuno: di questo è convinto Giovanni Impastato, il gestore del locale, che non ha mai creduto alla versione del corto circuito accidentale fornita dai Vigili del Fuoco.
Giovanni è il fratello di Peppino Impastato, il giovane militante di Democrazia Proletaria ucciso dalla mafia nel 1978. Gli chiedo di ricordare la notte del 9 dicembre e di fare un bilancio complessivo della attività svolta in questi anni.
Giovanni Impastato nella casa del boss mafioso Tano Badalamenti (questa foto e quella di copertina sono di Alberto Prina).
Dove ti trovavi quella sera e quale è stata la tua prima reazione?
«Ero a Pisa per degli incontri con degli studenti legati alle attività
della Casa della Memoria di Peppino Impastato. Intorno all’una e mezza
di notte ho saputo della notizia dalla guardia giurata che per prima è
accorsa sul luogo dell’incendio. Per me è stato un tremendo shock, una
botta molto dura. Per noi si è trattato del terzo attentato nel giro di
tre mesi: il primo incendio è scoppiato il 5 settembre all’interno di
alcuni capannoni di nostra proprietà dati in affitto a terzi, mentre il
secondo, il 4 dicembre, ha bruciato il camion di un venditore ambulante
di pesce che stazionava proprio nel piazzale di fronte all’ingresso
della pizzeria. Il venditore, Salvatore Rugnetta, è risultato poi essere
un mafioso arrestato per traffico di droga a Carini.
Tre incendi di fila non possono essere tutti casuali. Non sono
generalmente una persona che approfitta delle circostanze, ma questi
fatti criminosi in successione mi spaventano un po’».
Non si è trattato, in effetti, di semplici sospetti dovuti ad episodi
precedenti: con prove puntuali e con una perizia di parte, avete
dimostrato anche tecnicamente che l’incendio alla pizzeria non è stato
un incidente…
«Esatto: i Vigili del Fuoco hanno parlato di un corto circuito in seguito
ad un surriscaldamento nella zona dove sono posizionate le celle
frigorifere. Ma la nostra perizia dimostra che l’incendio è partito da
un punto diverso da quello indicato inizialmente dai Vigili del Fuoco e,
anzi, i focolai sono stati due; senza contare che, essendo inverno, era
in funzione in quel momento solo un frigorifero, mentre gli altri non
erano collegati alla corrente».
Ancora una foto della pizzeria distrutta, secondo Giovanni Impastato, da un attentato incendiario.
La pizzeria è diventata negli anni anche un luogo simbolo della lotta
alle mafie, uno spazio dove, più volte, sono state fatte denunce
importanti contro la criminalità organizzata nelle sue varie
sfaccettature. Penso al contrasto del racket della prostituzione che è
una della battaglie più recenti. A chi davate fastidio?
«Abbiamo denunciato una presenza molto numerosa di prostitute nei pressi
della pizzeria. Dopo due mesi in cui i carabinieri sono intervenuti più
volte per procedere all’identificazione delle persone coinvolte, una
notte abbiamo deciso di allontanare le ragazze che stazionavano nello
spazio adiacente la pizzeria. Un’azione che ci è costata una serie di
minacce da parte organizzazione che gestiva il giro di prostituzione, ma
nonostante questo siamo andati avanti, fino ad arrivare alla condanna
dei responsabili di questa attività illecita.
In questi anni abbiamo dato fastidio a tanti. Penso anche alla vicenda
del casolare dove è stato ammazzato Peppino: quest’estate è stato
trovato in uno stato di totale degrado, quasi a voler umiliare la
memoria di mio fratello. E il proprietario del terreno su cui sorge si è
rifiutato di venderlo alla Regione Sicilia, che avrebbe fatto diventare
quel luogo uno spazio dedicato alla memoria».
La vicenda di Peppino Impastato è stata resa celebre dal film “I cento
passi” di Marco Tullio Giordana, una pellicola del 2000 il cui titolo
evocava la distanza tra la casa del boss mafioso Tano Badalamenti e
quella della vostra famiglia. Oggi quei “cento passi” si sono
accorciati: la casa di Badalamenti è stata assegnata, grazie alla legge
la 109 del 96 che destina a finalità sociali i beni sequestrati alle
mafie, alla Casa della Memoria. Che significato ha avuto per te entrare
in quella casa dopo tanti anni?
«Quella casa è stata affidata alla nostra associazione, ai familiari di
Peppino, e al suo interno abbiamo già organizzato molte iniziative per
dare il senso di un bene che è stato restituito alla collettività.
Entrare in questa casa è stato un segnale importante, il segnale che la
mafia può essere sconfitta. È un messaggio fondamentale da trasmettere
alle giovani generazioni, che possono così sperare in un mondo in cui
non vincano sempre la rassegnazione e il fatalismo. Noi vogliamo
continuare a lavorare per mantenere vivi gli ideali e i valori che hanno
ispirato la vita di Peppino Impastato».
Dalla vicenda dell’uccisione di tuo padre, all’omicidio mafioso di tuo
fratello, agli attentati di questi mesi, i depistaggi per non fare
individuare i responsabili sembrano non avere fine. Dove trovi la forza
per andare avanti?
«È vero, ho assistito in tutti questi anni a continui depistaggi che
hanno reso più difficile la ricerca della verità. Ma non ho mai fatto un
passo indietro e ho deciso che valeva comunque la pena di andare
avanti. Tra l’altro sono stato incoraggiato anche dai tantissimi
giovani, siciliani e non, che mi hanno aiutato e sostenuto».
Peppino Impastato, ucciso dalla mafia nel 1978, davanti alla storica sede di Radio Aut.
Come è cambiato il clima culturale e sociale a Cinisi da trent’anni fa,
quando fu ucciso tuo fratello?
«Qualcosa è cambiato: lo dimostra il fatto che molte persone hanno
accettato subito l’idea che quello del 9 dicembre è stato un incendio
doloso.
Ho ricevuto solidarietà dalle istituzioni, innanzitutto: il sindaco di
Cinisi Salvatore Palazzolo, espressione di una lista civica, ha detto in
maniera molto chiara di essere preoccupato per il possibile rigurgito
mafioso nella nostra zona. Già in passato, d’altra parte, si era
dimostrato sensibile a attento alle tante attività che svolgiamo in
paese, anche agevolando l’assegnazione della abitazione di Badalamenti
alla Casa della Memoria.
Anche i Carabinieri, nelle indagini di questi giorni, stanno lavorando
con grandissima professionalità e attenzione verso la mia famiglia: un
altro segnale del cambiamento di clima rispetto al ‘78.
Ma ciò che soprattutto ci ha sostenuto e continua a darci forza sono le
espressioni spontanee di solidarietà giunteci da moltissime persone e
realtà politiche e associative sparse per l’Italia».
Se potessi parlare dai microfoni di Radio Aut (la radio locale con cui
Peppino irrideva i mafiosi) cosa diresti a coloro che hanno organizzato
l’attentato?
«Direi loro che non hanno concluso nulla con la loro azione dimostrativa.
L’obiettivo, posso garantirlo, non è stato raggiunto: nonostante i
danni ingenti, la pizzeria riaprirà in primavera e siamo certi che tutti
gli amici della Casa della Memoria ci aiuteranno a ripartire con
maggiore forza. Questo attentato mi ha dato ancora più convinzione
nell’andare avanti senza paura».
A chi chiedi oggi aiuto per poter ripartire con la tua attività
commerciale?
«L’attentato è avvenuto su un’attività privata che, per quanto importante
per il significato delle tante iniziative sull’antimafia che abbiamo
organizzato, voglio che rimanga tale. Non chiedo alcun
aiuto di carattere economico.
Chiedo, a chiunque lo desideri, di venire a trovarci a Cinisi per
conoscere le attività che svolgiamo e sostenerci moralmente. Invito a visitare il sito della nostra associazione (http://www.peppinoimpastato.com/) o ad inviarci una mail
(casamemoriaimpastato@gmail.com) per continuare a sostenerci così come è
avvenuto, con migliaia di persone, in questi ultimi trent’anni».
Andrea Ferrari